Il ricordo
Guido Ceronetti, un funambolo della parola, cesellatore artigiano delle lettere e del senso
Poeta, scrittore, drammaturgo, marionettista, traduttore, Ceronetti fu tutto: cinque anni fa ci lasciava, ma solo nella sua essenza corporea.

Il 13 settembre di cinque anni fa svaniva, ma solo nella sua essenza corporea, una delle più funamboliche, raffinate e intime voci della cultura italiana. Guido Ceronetti. Circondato discretamente dallo sguardo muto delle sue adorate marionette, dai suoi libri, e chiuso nel silenzio del suo giardino interiore, smeraldino al pari di promessa di un Assoluto a picco sul mondo, che ha curato riga dopo riga, aforisma dopo aforisma, Guido Ceronetti rappresenta ancora oggi la Babele della bellezza.
Cesellatore artigiano delle lettere e del senso, glossolalico nell’incedere d’erudizione, traduttore nel sangue e nella poesia del Cantico dei Cantici, di cui sottolineò l’ellittico erotismo, e del Qohélet, divino dialogo tumultuante di un lirismo più che metafisico, fu amico e sensibile estimatore di Cristina Campo. Fu tra i pochissimi recensori de ‘Il flauto e il tappeto’, con quel ‘Cristina Campo o della perfezione’ che oggi adorna la conclusione de ‘Gli imperdonabili’, volume di rara preziosità che lo stesso Ceronetti apre, nella congiunzione di alfa e omega, con la commovente nota ‘Cristina’. Se Cristina Campo fu ‘trappista della perfezione’ (come ebbe a definirla proprio Ceronetti), lui è stato ed è funambolo della parola, capace di attraversare l’abisso di solitudine della esistenza umana con lucente gnosi, riverberata da infiniti tramonti che di rossore in rossore sottolineano anima da eterno viandante.
E viandante di un medioevo giapponese di sogno, tra maschere rituali e formalismi cerimoniosi, ricerca estatica di una estetica sublime, Ceronetti lo fu davvero – le sue opere più radicali, più potenti, più legate ad una corteccia che si arrischia nel profondo dell’albero della vita, come ‘Un viaggio in Italia’ e ‘Albergo Italia’, ce le ha lasciate divagando e circumnavigando tra strade, camminamenti, statue, ombre, nebbie e solitudini, immalinconite dall’occhio ceruleo di una forma priva di ontologia, l’esistenza in un mondo disperso.
Poeta, scrittore, drammaturgo, marionettista, traduttore, Ceronetti fu tutto. Non il tutto tuttologico della odierna pappetta che esonda da televisioni e da cataloghi di case editrici che celebrano l’inconsistenza, ma un tutto prismatico, luminescente, diamantino nell’accecare i sensi.
Uomo da divanetto damascato, tra arazzi senescenti e dalle porpore ombrose, nei suoi ‘Pensieri del tè’, sorseggiando il suo tè verde cinese sente scorrere pensieri furenti, abbarbicati lungo sponde turrite e sentieri cinti da infiniti giardini, attorno cui come fiori sbocciano Baudelaire, Tocqueville, il Corano. Sacro, un sacro assoluto, gemme di gnosi, lungo ‘La carta è stanca’ o ‘L’occhiale malinconico’, riflessioni sempre esplosive nella loro tellurica bellezza, puntuta nei riferimenti e in una erudizione totale. Alleato nelle sue pubblicazioni, principalmente, di Adelphi e di Einaudi, raffinatissimo autore che ha incarnato la quintessenza calassiana dell’autore della casa editrice milanese. Falci di luna nel plenilunio del Tragico, quando il mondo irrorato di ambra e seta appare meno inesplicabile, come nel curiosissimo ‘Insetti senza frontiere’ Ceronetti ammise.
Scettico nei confronti dell’accelerazione del moderno, ingorda melassa capace di frantumare l’unità della memoria, come scrisse in ‘Per non dimenticare la memoria’, Ceronetti rimase in cotta di maglia e libri a difendere quanto di bello può essere residuo nel mondo. Ha cesellato, intrecciato come nodi di una veste sacra, imbevuto di poesia e misticismo, ogni singola parola. Viandante, viandante appunto di periferie oniriche e di una interna emigrazione, quell’impero dalle piastrelle cremisi e d’argento che si apre a ventaglio sulla città chiamata vita. Filosofo, filosofo ignoto con lanterna in mano per percorrere le stradine della notte, sotto il canto dei grilli e nel lucore spiritico delle stelle, tutte lassù, immote ma sorridenti, nel ventre del cielo. A intonare il coro liturgico della fragilità del pensare, Lare della ricerca in queste vallate dove poesia e Assoluto danzano fino alla fine dei tempi.
© Riproduzione riservata