Ha un cancro in stato avanzato, ha perso trenta chili negli ultimi mesi, si sottopone periodicamente a chemioterapia, è una larva umana, ma per lo Stato deve morire in carcere. Aurelio Quattroluni è un detenuto di origine siciliana condannato all’ergastolo ostativo, è in prigione da più di vent’anni, oggi sta scontando la sua pena nel carcere di Secondigliano dove è recluso dal 2020. È malato, la famiglia riferisce che versa in un forte stato depressivo e che alterna scioperi della fame ad attacchi di autolesionismo.

Tutto ciò, però, non basta: deve morire in cella. «Ho inviato più di sessanta pec al Tribunale di Sorveglianza di Napoli facendo richiesta di arresti domiciliari – racconta Ornella Valenti, legale di Quattroluni – Non ho mai ricevuto una risposta, se non mail nelle quali mi veniva comunicato che gli uffici non avevano ancora acquisito le informazioni necessarie. Se non i domiciliari, almeno il trasferimento vicino casa significherebbe già tanto per lui». Il Tribunale di Catania, invece, seppure con qualche ritardo ha risposto all’avvocato Valente. «Il magistrato siciliano ha rigettato per due volte la richiesta dei domiciliari – continua Valente – una volta nel settembre del 2020 e l’altra nel febbraio di quest’anno ritenendo che le condizioni di salute del mio assistito fossero compatibili con il carcere. Ma non è così». Dal carcere di Padova, dove era inizialmente recluso, Quattroluni fu “spedito” agli arresti domiciliari a Catania dove fu operato d’urgenza. Rimase a casa per due anni e sei mesi, quindi in regime di arresti domiciliari, per le cure necessarie.

Nel mese di febbraio 2020, in seguito a un’inchiesta relativa a fatti risalenti a 25 anni prima, fu arrestato e condotto portandolo nella casa circondariale di Bicocca, a Catania. Dopo lo scoppio dell’emergenza Covid la vicenda subì uno stop, ma successivamente il Tribunale di Catania dispose di nuovo gli arresti domiciliari con scadenza a settembre 2020. Nel frattempo le istanze presentate dal suo avvocato non sono state lette e il detenuto è stato trasferito nel carcere di Secondigliano, dove si trova adesso. Pec non lette, risposte mai date all’avvocato e un uomo che seppur condannato al carcere a vita, in quel carcere rischia di morire, in aperta violazione del diritto alla salute e della sua dignità.

Il garante regionale dei detenuti Samuele Ciambriello ha incontrato recentemente Quattroluni e ha riacceso i riflettori sulla sua condizione e sulla necessità di consentirgli di essere curato, se non a casa, in una struttura attrezzata. «Aurelio è una persona malata, condannata all’ergastolo ostativo, ha un cancro, sta facendo dei cicli di chemioterapia – spiega Ciambriello – Sulle sue spalle pesano due condanne mortali: ergastolo e cancro, ma per ironia della sorte una può cancellare l’altra». La condanna all’ergastolo non equivale alla pena di morte o, almeno, non dovrebbe. «Adesso Aurelio è pelle e ossa – sottolinea il garante – Non si tratta di essere benevoli o buonisti: sono deciso ad andare avanti per difendere il diritto alla salute e alla vita, senza la doppiezza ipocrita di chi divide i detenuti in buoni e cattivi o di chi vuole separare quelli condannati per reati ostativi da quelli che si trovano in carcere per fatti meno gravi». Si tratta di rispettare i diritti. «Viviamo in un Paese dove il populismo penale si coniuga con il populismo politico – conclude Ciambriello – Non possiamo tollerare altre reticenze e dimenticanze sui temi del diritto, della giustizia e della detenzione».

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Giornalista napoletana, classe 1992. Vive tra Napoli e Roma, si occupa di politica e giustizia con lo sguardo di chi crede che il garantismo sia il principio principe.