Medio Oriente
Hamas cala la maschera: “Le armi? Un nostro diritto”
I terroristi bluffano e rifiutano ancora una volta di cessare il fuoco. Adesso non ne fanno più mistero: il loro disarmo è una bestemmia

Hamas ha per l’ennesima volta respinto una proposta di accordo, che questa volta prevedeva un “cessate il fuoco” di 45 giorni e la liberazione di oltre 1.000 detenuti palestinesi a fronte del rilascio di 10 ostaggi israeliani. Ma non è motivata da un dissidio su quei numeri la risposta negativa dell’organizzazione terroristica palestinese. È motivata dal fatto che Hamas – come per la prima volta rivendica apertamente – non intende concedere nulla a proposito del proprio disarmo. La cosa è sempre stata chiara a chiunque, ma adesso i sequestratori di Gaza hanno addirittura formalizzato quell’indisponibilità. Nel motivare il rigetto della proposta israeliana, il capo della delegazione di Hamas, Khalil al-Hayya, ha detto testualmente: “La resistenza e le sue armi sono un diritto naturale del nostro popolo”.
Come ha dichiarato poco dopo Ahmed Fouad Alkhatib, un noto attivista palestinese sicuramente non filo-israeliano, “ciò che Hamas si rifiuta di accettare è di rinunciare al suo ruolo e al controllo finale su Gaza, mantenuto unicamente dalla violenza e dalle armi del gruppo, rivolte verso l’interno per reprimere qualsiasi opposizione”. Basta andare indietro di qualche settimana, con quelle parate di miliziani perfettamente uniformati nel rilascio teatrale degli ostaggi israeliani, per ricordare ciò che allora fu scarsamente compreso: e cioè che quell’esibizione era rivolta assai poco al mondo che vi assisteva e assai più ai civili di Gaza. I quali, pur celebrandola, in realtà subivano quella rassegna di illusoria riaffermazione vittoriosa. Giusto come la parata militare di ogni sistema autocratico e dittatoriale, fatta meno per impensierire i nemici esterni che per intimorire la società domestica pure adunata a festeggiarla.
Questa è forse la cifra vera, il profilo illustrativo di tutto il conflitto: la comunità internazionale ha premuto per 18 mesi su Israele, per pregiudizio o miopia, al costo di lasciare Gaza sotto il controllo di Hamas. Si diceva: Gaza non è Hamas. Vero solo in parte, e cioè se la comunità internazionale non avesse senza sosta contribuito ad accreditare le pretese rappresentative di Hamas, come invece ha fatto. E dopo 18 mesi non saremmo a questo punto, con Hamas che rivendica il diritto naturale alla resistenza armata “del suo popolo”, se la comunità internazionale avesse reso chiaro che il diritto di autodeterminazione del popolo palestinese non solo non presuppone, ma esclude, che a farsene titolare sia chi organizza, attua, rivendica e promette di ripetere i massacri del 7 ottobre.
Una quota non irrilevante della sofferenza della popolazione di Gaza, e soprattutto la durata di quella sofferenza, si devono ai troppi che per contrastare l’azione israeliana hanno sostanzialmente garantito impunità all’azione del fondamentalismo terrorista palestinese. La quale non si è consumata, contro Israele, il 7 ottobre del 2023, ma è proseguita, anche contro Gaza, da quel giorno sino ad oggi. E pretende di continuare.
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