La storia di un rapimento
“Hamas liberi tutti gli ostaggi” L’intervista a Maayan Kaplun Keidar in angoscia per suo papà
Parla con Il Riformista la figlia di uno degli israeliani sequestrati il 7 ottobre nel kibbutz Be’eri
Lei si chiama Maayan Kaplun Keidar. È la figlia di un pensionato israeliano di 68 anni, attivista per la pace, che la mattina del 7 ottobre è stato sequestrato a casa sua: nel kibbutz di Be’eri, sul confine israeliano a ridosso della Striscia di Gaza. Ha accettato di incontrarci per far conoscere la storia del rapimento di suo padre ai nostri lettori. Dopo l’intervista con noi è stata ricevuta da Papa Francesco insieme ad altri undici famigliari di ostaggi attualmente nelle mani di Hamas. Suo padre si chiama Dror: in ebraico significa Libertà.
Cos’è successo quella mattina al kibbutz di Be’eri? «Mi sono svegliata con una lunga sequenza di messaggi Whatsapp. Alle 7 del mattino mio padre mi ha iniziato a scrivere che c’erano molti uomini armati di Hamas nel kibbutz. Era una comunicazione talmente scioccante da risultare incredibile. Nella concitazione non ci siamo mai detti Addio. Mai detti: Ti voglio bene. Gli ho detto Stai attento. Fai attenzione, nasconditi. Ero certa che i nostri soldati fossero sul punto di entrare e risolvere la situazione».
E invece? «La comunicazione si è interrotta. Pensavamo si fossero scaricati i telefoni. Passano ore di angoscia indescrivibile. Dopo un po’ abbiamo visto un video dove lui e la sua compagna, insieme ad altri vicini, erano stati sequestrati. E camminavano con le mani alzate. Poi sono stati trovati i corpi della compagna e di alcuni vicini. Non il suo. Sappiamo che è stato ferito a una gamba. Ma è sopravvissuto. E sento che è vivo, che sta facendo del suo meglio per tenersi in vita».
Ci parli di lui. Chi è suo padre, Dror Kaplun? «Un uomo buono. Un ottimista. Sempre sorridente e concentrato sul lato positivo delle cose. Ed è un lettore appassionato di testi di filosofia, prevalentemente. Ma anche di storia. E di alimentazione corretta. Ha affrontato il diabete con una terapia naturale e ha ottenuto grande beneficio dal rispetto di regole di vita sana. Non beve, non fuma. Sceglie con attenzione frutta e verdura biologica ed è anche per questo che amava la vita nel kibbutz, dove si pratica agricoltura sostenibile. Rimettendo in ordine la sua casa dopo l’irruzione dei terroristi, ho trovato un libro che aveva letto da poco, ancora aperto. Un presagio… »
Quale libro? «Una guida alla nutraceutica che si intitola “Come non morire”. Lo interpreto come un segno».
Da dove proviene la sua famiglia? «Siamo arrivati in Israele nel 1948 per metterci al sicuro dopo la Shoah. La mamma di mio padre, mia nonna, veniva dalla Polonia: dopo il rastrellamento del Ghetto di Varsavia era stata internata ad Auschwitz. È una delle poche sopravvissute. Il padre di mio padre veniva dal confine tra Romania e Ucraina, dove c’erano stati altri pogrom. Quello che alla nostra famiglia non erano riusciti a fare Hitler e Stalin lo ha fatto Hamas».
Ci aiuta a capire come è potuto succedere? Dov’erano il Mossad, Shin Bet? «Non lo so davvero, non capiamo come possa essere successa una tragedia così. È un grande, grande, grande choc. È come se lo Stato si fosse dissolto. Le persone nel kibbutz Be’eri sono state abbandonate».
E ora si fida del governo, dell’esercito, dell’intelligence? «Non possiamo fare altro. Dobbiamo sperare che sappiano quello che stanno facendo. Poi ci sarà il momento in cui i responsabili dovranno rispondere di quello che è successo. Di quello che è stato fatto e non fatto».
Le attività di Be’eri erano rivolte al dialogo con la Palestina, al rispetto reciproco. Cosa le diceva suo padre? «Mio padre è stato un attivista per la pace per tutta la sua vita. Ha contestato le operazioni militari e lavorato molto al dialogo con i nostri vicini palestinesi, nello spirito di coabitazione nonviolenta tipico dei kibbutz».
E hanno colpito a caso, per prossimità al confine o c’è secondo quello che voi sapete un interesse specifico a combattere l’esperienza dei kibbutz? «Hanno colpito perché siamo vicini al confine e sapevano che anziani e bambini non potevano difendersi. Hanno agito con l’unico intento di seminare morte. Di colpire Israele al cuore, spezzando famiglie, uccidendo persone innocenti. Hanno mostrato il lato peggiore dell’umanità, il lato più crudele della violenza. Hanno ucciso per il gusto di uccidere ebrei. Ma attenzione, Europa: perché nel loro mirino ci siamo noi e voi, insieme. Dopo gli ebrei, i più odiati da Hamas sono i Cristiani. Qualcuno pensa ancora di essere al sicuro?».
Al Papa cosa ha detto? «Che non vincerà l’odio. Gli abbiamo chiesto di parlare dei nostri cari, di provare a intercedere affinché sia forte, trasversale unanime la richiesta di liberare tutti gli ostaggi. Nell’ebraismo c’è un iper comandamento: Vincerà la vita. Ci aiuti lui, ci aiuti l’Italia a far vincere la vita».
Cosa si aspetta dall’Italia, dall’Europa? «Solidarietà e sostegno. Denunciate le attività dei terroristi, contribuite a isolarli, per favore. Perché se non si sentono forti faranno un passo indietro anche sui prigionieri».
E invece c’è molta disinformazione e anche qualche pregiudizio di troppo. L’antisemitismo la preoccupa? «Se l’antisemitismo che c’è in Europa non ci preoccupasse non saremmo andati a vivere in Israele. Noi siamo lì perché qui eravamo in pericolo. Il punto è che Hamas è una polveriera che oggi colpisce noi e domani può colpire l’Europa».
Cosa ha spinto Hamas ad agire adesso, e con questa brutalità? «Un ordine internazionale. Sappiamo che volevano interrompere il processo di pace al quale stavano lavorando Israele e Arabia Saudita, sono cose di cui leggiamo. Io credo che senza la notizia di come sarebbe cambiata la distribuzione di gas nella regione, con le forniture petrolifere saudite al posto di quelle iraniane, nessuno avrebbe mai lanciato una operazione di questo genere. Un massacro barbarico, un insieme di atrocità e di crudeltà che mai erano state viste nei film dell’orrore».
Incrociamo le dita con lei, aspettiamo il ritorno a casa di Dror e di tutti gli ostaggi. Quali saranno le sue prime parole? «Quelle che non sono riuscita a dirgli, quella maledetta mattina: Papà, ti voglio bene. Dobbiamo tornare tutti a volerci bene. Uomini e donne, israeliani e palestinesi. Cosa ci è successo? (Piange). Torniamo a far vincere la vita».
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