Esattamente dieci anni fa – metà luglio del 2014 – in una sola mattina Hamas lanciava sui civili israeliani 47 razzi, l’ennesimo grappolo di ordigni dopo gli oltre mille sparati nei sette giorni precedenti. Quell’attacco avveniva mentre il governo israeliano annunciava di aver accettato la proposta di tregua approntata dall’Egitto, e costituiva il comportamento concludente con cui Hamas rifiutava le condizioni minime di qualsiasi accordo: vale a dire lo smantellamento degli arsenali, delle rampe di lancio e dei tunnel utilizzati senza sosta per colpire obiettivi civili israeliani.

Shimon Peres – a quell’altezza di tempo presidente di Israele ancora per pochi giorni – nel mezzo di quella crisi avrebbe avuto modo di descrivere una situazione i cui tratti abbiamo imparato a riconoscere, identici, dieci anni dopo: “I terroristi hanno lo scopo di uccidere civili innocenti. Madri e bambini. Ebrei e arabi. Cercano la morte, e non la vita, la distruzione e non la crescita. Agiscono spinti dall’odio e portano la tragedia sulla propria gente”.

La differenza, rispetto ad allora, è che la sequela di “no” che Hamas – da dieci mesi a questa parte – va opponendo a ogni credibile ipotesi di tregua, interviene non solo dopo ciò che quei macellai hanno fatto il 7 ottobre ma dopo la loro rivendicazione di voler ripetere ancora e ancora quello scempio. E mentre in quei tunnel – gli stessi non distrutti dieci anni prima – sono sequestrati i vecchi, le donne, i bambini rapiti nel pogrom del Sabato Nero. A parte la precaria tregua del novembre dell’anno scorso – quando Hamas liberò un certo numero di ostaggi a fronte della liberazione, da parte di Israele, di un numero doppio di detenuti – ogni tentativo di soluzione almeno provvisoria del conflitto è stata impedita dal rifiuto delle dirigenze terroristiche palestinesi: ora rifiuto puro e semplice, ora camuffato da disponibilità a condizioni di accordo semplicemente irricevibili. Si pensi alla risibile pretesa, a febbraio, che l’accordo per una tregua prevedesse il divieto per gli ebrei di salire al Monte del Tempio. Si pensi alla pretesa – sempre a febbraio – che Israele, senz’altra garanzia, procedesse alla liberazione di tremila prigionieri (molti dei quali responsabili di gravissimi delitti) a corrispettivo del rilascio di poche decine di ostaggi israeliani.

Nella propria guerra psicologica e comunicativa, Hamas non ha mai smesso di usare gli ostaggi: né quelli che si presumono vivi, né quelli dichiaratamente già assassinati, le cui ossa i rapitori non esitano a includere tra le poste di scambio; e ha mantenuto questo comportamento ricattatorio anche quando il conflitto appariva al giro di boa delle iniziative militari su Rafah. A fine aprile il ministro degli Esteri, Israel Katz, annunciava che Israele avrebbe “sospeso l’operazione” se gli ostaggi fossero stati rilasciati. Era l’ennesimo “no” di Hamas, concomitante con la diffusione di un video in cui alcuni ostaggi – uno dei quali gravemente ferito – imploravano il governo di impegnarsi per la loro liberazione.

Un copione già abbondantemente sperimentato nel dicembre dell’anno scorso, quando Hamas si dichiarava indisponibile a qualsiasi ipotesi di rilascio degli ostaggi se Israele non avesse accettato senza riserve le “condizioni della resistenza”: vale a dire il puro e semplice ritiro da Gaza dell’esercito israeliano e la liberazione di “tutti” i prigionieri palestinesi, inclusi quelli condannati per gravi atti di terrorismo. Non diversamente a metà giugno, quando, ancora, Hamas respingeva un’ipotesi di tregua apportando “modifiche” a una proposta mediata da Egitto e Qatar e argomentando che gli emendamenti (cioè la “fine totale delle operazioni militari”, ma senza garanzie circa il rilascio degli ostaggi) davano “priorità agli interessi del nostro popolo palestinese”.

Le parole con cui Joe Biden – giusto ieri alla convention democratica – rimproverava ad Hamas l’ennesimo esperimento elusivo erano giudicate “fuorvianti” dall’organizzazione terroristica in debito di altri argomenti, mentre l’esercito israeliano recuperava i resti di sei ostaggi. Il modesto depauperamento del bottino che da dieci mesi i mandanti del pogrom del 7 ottobre amministrano con indiscutibile perizia, tesaurizzandolo per tenere viva l’angoscia delle famiglie e tenere forte la pressione della società israeliana su un governo accusato di trascurarne la sorte. Da quel discorso di Shimon Peres di dieci anni fa questo è cambiato platealmente: la dimostrazione, in faccia al mondo, di ciò che Hamas è capace di fare. E tutti quei “no” posti a certificare che non ha mai avuto intenzione di fare diversamente.