Sarà perché come spesso ricorda Stefania Craxi la maggioranza dell’elettorato riformista non ha votato per i propri carnefici. Sarà perché i dirigenti socialisti, ovunque collocati, non hanno saputo attualizzare il patrimonio valoriale del socialismo democratico italiano, preferendo battaglie di testimonianza. Ecco perché il film di Amelio è il più politico che si potesse fare: perché svela gli effetti di quel clima di terrore, rappresentato dal cappio agitato in Parlamento da un parlamentare leghista, sulla vita privata dei militanti del Psi e delle loro famiglie. Il dolore che diventa una categoria politica a fronte della violenza subita. Una violenza che non può appartenere alla giustizia in uno stato democratico.

Non c’è vittimismo in queste parole, ma una lucida e amara consapevolezza. A farne le spese ne è stato comunque il Paese. Il morbo del giacobinismo, che raggiunse il suo apice con il lancio delle monetine al Raphael, ha infettato ogni ambito della vita politica e sociale. Mentre da oltre vent’anni manca al dibattito pubblico una cultura autenticamente riformista.

La demagogia, il conformismo e il dogmatismo regnano incontrastati, a destra come a sinistra. Sarebbe bello sperare nelle nuove generazioni, ma nessun riformista autentico si può macchiare della colpa più grave: l’ingenuità. Bisognerà dunque essere molto pragmatici senza alcun complesso d’inferiorità e continuare a parlare per chi non c’è più. Come la scena finale del film di Amelio, in cui una pietra squarcia il soffitto di cristallo, i “figli” continueranno a parlare per i “padri”.