Hammamet di Gianni Amelio è stato definito un film intimista, poco politico. È vero, la sceneggiatura non approfondisce il ruolo chiave di Bettino Craxi nella storia del Paese e della sinistra italiana, concentrandosi piuttosto sull’epilogo tragico della morte in terra straniera. A molti socialisti è sembrato un’opportunità mancata per fare un po’ di luce dopo decenni di mistificazioni e rimozioni. Eppure, a questi compagni vorrei dire, cosa c’è di più politico dell’esilio che Amelio rappresenta attraverso il linguaggio della drammaturgia classica?
Una tragedia, quella di Craxi, che è sì intima e familiare, perfettamente catturata dall’interpretazione di Pierfrancesco Favino, ma che riguarda un’intera comunità rimasta orfana il 19 gennaio del 2000. Hammamet è, infatti, un grande film sui “figli” come testimonia il filo rosso che lega la figlia di Craxi con Fausto, il figlio del tesoriere del partito morto suicida a seguito di Tangentopoli. Di figli che si sono ritrovati senza padri (come quelli di Sergio Moroni). Di figli che hanno visto la loro casa in fiamme (per usare il linguaggio della tragedia classica caro ad Amelio). Di figli che non capiscono i padri (la scena più commovente del film è quando Bobo canta Piazza Grande al padre).
Di figli a cui a scuola gli altri bambini dicevano: «Domani arriva Di Pietro e arresta tuo padre!». Di figli che hanno visto i padri lottare contro i mulini a vento pur di non perdere l’onore, la salute e in qualche caso anche la vita; come appunto Fausto, il personaggio che Amelio, fa finire non a caso in un ospedale psichiatrico.
E allora va spiegato ai giustizialisti, ai moralisti e ai cinici azzeccagarbugli, che l’esilio, prima di essere una categoria del diritto, lo è sul piano simbolico per tutti i socialisti. Chi scrive è un “figlio” di socialisti, come molti altri. Troppo giovane per ricordare gli anni di Tangentopoli ma che è testimone delle conseguenze di quel periodo. Il senso d’impotenza nel vedere la propria memoria saccheggiata da chi invece era uscito sconfitto dal confronto con la Storia. L’umiliazione di sentirsi politicamente “apolide”, mentre a degli “scappati di casa” veniva affidato il compito di guidare questo Paese. È il dramma della diaspora socialista a cui ancora nessuno dei dirigenti della sinistra italiana post comunista ha voluto dare una risposta e su cui ancora molti banchettano. E infatti la sinistra democratica è minoranza nel Paese da oltre due decadi mentre la destra impera e si rafforza.
Sarà perché come spesso ricorda Stefania Craxi la maggioranza dell’elettorato riformista non ha votato per i propri carnefici. Sarà perché i dirigenti socialisti, ovunque collocati, non hanno saputo attualizzare il patrimonio valoriale del socialismo democratico italiano, preferendo battaglie di testimonianza. Ecco perché il film di Amelio è il più politico che si potesse fare: perché svela gli effetti di quel clima di terrore, rappresentato dal cappio agitato in Parlamento da un parlamentare leghista, sulla vita privata dei militanti del Psi e delle loro famiglie. Il dolore che diventa una categoria politica a fronte della violenza subita. Una violenza che non può appartenere alla giustizia in uno stato democratico.
Non c’è vittimismo in queste parole, ma una lucida e amara consapevolezza. A farne le spese ne è stato comunque il Paese. Il morbo del giacobinismo, che raggiunse il suo apice con il lancio delle monetine al Raphael, ha infettato ogni ambito della vita politica e sociale. Mentre da oltre vent’anni manca al dibattito pubblico una cultura autenticamente riformista.
La demagogia, il conformismo e il dogmatismo regnano incontrastati, a destra come a sinistra. Sarebbe bello sperare nelle nuove generazioni, ma nessun riformista autentico si può macchiare della colpa più grave: l’ingenuità. Bisognerà dunque essere molto pragmatici senza alcun complesso d’inferiorità e continuare a parlare per chi non c’è più. Come la scena finale del film di Amelio, in cui una pietra squarcia il soffitto di cristallo, i “figli” continueranno a parlare per i “padri”.