In principio, l’inclusione era una questione di principio. Le aziende la promuovevano perché era la cosa giusta da fare, accontentando sia i dipendenti sia i consumatori. Era un’epoca di improvvisazione e buona volontà. Bei vecchi tempi! Poi sono arrivate centinaia di ricerche. Harvard Business Review sosteneva che le aziende più diversificate registrassero un fatturato superiore del 19%. McKinsey e la London Business School confermavano margini significativamente più alti. Forbes aggiungeva che queste aziende avevano il 33% in più di probabilità di superare i competitor. Non fare inclusione sembrava una condanna a morte per le aziende.

L’inclusione è diventata cruciale per attrarre, motivare e mantenere i talenti in azienda. Nell’epoca del quiet quitting e delle “grandi dimissioni”, con la penuria di personale, uno studio di Randstad informava che diversità e inclusione erano “importanti” per il 49% degli under 24. Da questione di principio, l’inclusione è diventata una delle principali questioni economiche. Sullo sfondo, la paura degli scivoloni aziendali sul tema e dei relativi effetti catastrofici sul mercato. Nasce così quello che Carl Rhodes chiama “Capitalismo Woke”, una pericolosa commistione tra economia e politica, guidata dalle multinazionali che sposano politiche progressiste per migliorare i risultati economici. Il marketing fa il resto e tutto diventa uno strombazzante virtue signaling (cioè la triste gara a dire quanto si è bravi nell’inclusione).

Ma la notizia è che non a tutti conviene. Con la polarizzazione sull’inclusione diventata un tema divisivo, i profitti profetizzati si sono ridotti. La paura di perdere clienti ha fatto fare retromarcia a diversi marchi negli USA. Robby Starbuck è un attivista conservatore con circa un milione di follower che ha preso di mira Tractor Supply (utensili per l’agricoltura), John Deere (trattori), Jack Daniel’s e, la scorsa settimana, Harley-Davidson. Lo slogan “go woke, go broke” fa paura alle aziende. Questo si capisce dal tono dei comunicati di resa della Harley e di Tractor Supply: azzeramento delle politiche di inclusione, cambio radicale di strategia. Mancavano solo le scuse e la colpa al solito social manager di turno.

Starbuck è furbo: sceglie aziende che traggono scarso vantaggio dall’inclusione e dalla parità di genere, con clienti prevalentemente maschi e conservatori, che facilmente smettono di acquistare se vedono un marchio troppo progressista. Con il suo storico di successi, può spaventare qualsiasi grande marchio, supportato anche dai retweet dell’immancabile Musk. Un sondaggio del Washington Post mi consola: i repubblicani favorevoli alla diversity & inclusion sono il 34% ma salgono al 49% se si spiega dettagliatamente la D&I nella domanda. Capito? Se la spieghi fa meno paura e guadagna consensi. Se diventa una bandiera invece non c’è speranza. La soluzione è una sola: spiegare, spiegare e ancora spiegare. Accettare che faccia paura, non demordere e continuare a spiegare. Il vantaggio delle tempeste è che prima o poi finiscono.