Cara segretaria,
sento di doverle scrivere perché spinto da una preoccupazione e insieme da una speranza. In occasione delle recenti elezioni europee, aderendo ad un appello di due genitori pubblicato su Avvenire del 25 maggio scorso, ho “ceduto” il mio voto al minore dei miei figli, appena sedicenne. Ho fatto questa scelta perché consapevole che “escludere i ragazzi vuol dire discriminarli; pagano le scelte degli adulti; non hanno voce”. Le confesso, tuttavia, che questa scelta mi ha per così dire “salvato” da una molto probabile astensione. Ho creduto nell’idea di partito democratico evocata da Pietro Scoppola nella sua relazione fondativa, che non coincideva con i perimetri delle culture politiche (in particolare il cattolicesimo democratico e la sinistra riformista) e dei relativi “accampamenti” che ne erano alla base, ma con il “partito nuovo”, cioè altro dalla semplice sovrapposizione di storie e biografie.

Un’idea di partito che assume il senso del “limite” della politica, che non ha mai l’obiettivo della realizzazione della “terra promessa in cui scorre latte e miele”, perché la terra promessa semplicemente non esiste; esiste soltanto “un posto migliore dell’Egitto” (Esodo e rivoluzione, Michael Walzer). Questo senso del limite, tuttavia, non impedisce alla politica di incarnare il “principio del non appagamento” (Aldo Moro) in virtù del quale essa rifiuta la resa allo status quo e tiene sempre viva l’ansia del cambiamento. L’idea di partito nuovo, dunque, è quella di un partito naturaliter riformista. Il riformismo del partito nuovo assume la complessità come dimensione nella quale abita e che lo spinge a ricercare soluzioni lontane da ogni massimalismo ideologico, in quanto risultato di un certamente difficile esercizio della cultura della mediazione, l’unica capace di tenere insieme, interessi e valori diversi.

Può darsi che questa cultura venga considerata moderata, ma “in politica essere moderati – afferma padre Spadaro – è un esercizio di radicalità”: nel senso che una politica moderata non si ferma alla superficie, ma ha il coraggio e l’umiltà di scendere alla radice delle questioni, senza pregiudizi. La moderazione “non esclude l’ indignazione, a volte la collera”, ma trova nella capacità di tenere insieme le antinomie, la propria essenza: la sicurezza con la accoglienza; l’efficienza del Governo con un Parlamento non schiavizzato (su questo tema, anzicchè limitarsi a gridare al lupo, sarebbe invece opportuno richiamare la cultura riformista dei democratici); l’attenzione alla green transition con le ragioni della solidarietà verso chi potrebbe pagarne un prezzo elevato; l’istruzione e la sanità per tutti con la libertà; la solidarietà, anche militare, a chi subisce aggressioni neo imperialiste con un forte protagonismo della Unione Europea. Si potrebbe continuare. Ma mi fermo qui.

Nella grammatica politica tradizionale, sono considerati moderati coloro che presidiano la conservazione dello status quo. Nella accezione invece che ne da padre Spadaro, la moderazione si declina come modalità del “fare politica” e non come categoria politica. Oggi, questa è la mia preoccupazione, non trovo nel Pd l’idea di un partito nuovo che nelle soluzioni che propone fa esercizio di moderazione nel senso appena descritto. Questa mancanza rischia di allontanare quanti, e tra questi molti cattolici, si riconoscono in una politica di “centro”. I quali, molto semplicemente, vorrebbero scelte di buon senso, fondate sulla realtà così come essa è e non come si vorrebbe che fosse. E non basta, come avvenuto in occasione delle elezioni europee, candidare figure di spicco del mondo cattolico per catturare i voti di centro. Si è voluto replicare l’antica tattica del partito comunista. E quindi, è una conferma di come il Pd oggi non sia il partito nuovo, dove anche i cattolici, e tra questi anche quelli di centro, sentono di avere cittadinanza.

Cara segretaria, servirebbe un po’ più di laicità. Occupandosi del futuro delle nuove generazioni, degli esclusi e dei non garantiti, dovrebbe evitare di chiudersi in recinti autoreferenziali che rischiano solo di alimentare ideologie e oligarchie. Ragioni storiche e culturali spingono, oggi più che mai, i democratici a stare insieme, a continuare a voler bene alla democrazia. Non c’è dubbio, infatti, che la continuità dell’ideale democratico non è garantita automaticamente dal suo ordinamento, ma è consegnata – come osserva il teologo Luca Novara – a “fonti motivazionali proprie di tradizioni metafisiche o religiose pre-politiche”. Per questo, nei momenti di crisi, di rinascita, di rinnovamento della democrazia, sottolineava Maritain, sono necessarie le minoranze profetiche di choc: “va notato che non basta definire una società democratica dalle sue strutture legali. Un altro elemento gioca una parte profonda, ossia la leva attiva, l’energia dinamica che mantiene il movimento politico, e che non può essere inscritto in alcuna costituzione né incorporato in alcuna istituzione, poiché esso è, al tempo stesso, personale e contingente, ad ha le sue radici nella libera iniziativa. Mi piacerebbe chiamare questo fattore esistenziale un fattore profetico. La democrazia non ne può fare a meno”. Chi può alimentare ed organizzare questo fattore che tiene viva la democrazia, se non chi fonda la sua speranza in un altrove che è già e non ancora. Questa è la speranza che nutro: vedere finalmente realizzata l’idea del partito nuovo, dove credenti e non credenti si ritrovino ad abitare un luogo plurale e dove le soluzioni sono frutto di dialogo e di confronto tra posizioni che possono anche essere distinte ma non distanti. In questo modo ci ritroveremo tutti davvero democratici.

Luigi Lochi

Autore

Coordinatore dell'Osservatorio nazionale dei beni confiscati promosso da Fondazione con il Sud