La Vespa c’è ancora.
Certo non è più la mitica vespa blu, autentico simbolo del regista, protagonista assoluta del primo folgorante episodio di quel “Caro Diario” che fece innamorare i francesi e anche me.
La stessa in sella alla quale, in “Aprile” dopo il dialogo agrodolce con Renato De Maria sulla durata della vita, guarda e riguarda quel metro troppo corto che la rappresenta, mentre scivola tra le strade di Roma.
Lei è andata in pensione – a causa delle norme antinquinamento – a vantaggio di una nuova e più moderna bianca che continua a essere inseparabile compagna di viaggio tra Monteverde e Trastevere, Nanni Moretti no. Per nostra fortuna.

Ed è davvero – parafrasando una delle infinite citazioni cult che il suo cinema ci ha regalato – uno splendido settantenne. Che ci ha appena regalato un capolavoro allegro e malinconico, smagliante di libertà e creatività come “Il sol dell’avvenire”: uno smisurato atto d’amore verso la settima arte.
Perché la prima cosa che va detta di Nanni Moretti, il più grande regista italiano vivente, è che la sua intera opera, ma ancora di più la sua intera esistenza, è stata dedicata all’amore per il cinema. Da quando da giovane “rottamatore” sfidava a duello Monicelli in quel meraviglioso Match di Alberto Arbasino (cos’è stata, un tempo, la tv in questo Paese) o si scagliava ironicamente contro il cinema di Sordi e Manfredi fino ad oggi che si gode le standing ovation a Cannes, dopo tanti premi e riconoscimenti. Il cinema quello vero, non quello delle serie e delle piattaforme, quello che si vive in una sala buia, sul grande schermo, insieme ad altri. Per Moretti il cinema è in sala, o non è.
Un’esperienza individuale e collettiva insieme, che esige tempo e attenzione.
Quanti capolavori ci saremmo persi, sul divano, distratti da uno smartphone o tentati da un telecomando?

Ha sempre avuto e ha tuttora una curiosità da autentico, vorace cinephile.
E questa è, a mio parere, una delle grandi doti misconosciute di Moretti: la capacità di diventare autore importantissimo, ma conservando sempre lo sguardo e il gusto di uno spettatore. Per lui il cinema è prima di tutto quello che si guarda, ancora prima di quello che si fa. Anche per questo, c’è un’intesa speciale con il suo pubblico, una complicitá rara, dovuta al fatto che i suoi film prevedono sempre l’interlocuzione con l’altro, il dialogo con chi guarda, la voglia di rivolgersi a qualcuno. Ad una platea di cui Moretti si sente parte. I suoi film, infatti, li ami davvero solo se riesci a entrare nella testa di Michele Apicella, se scatta un’identificazione con il suo universo ideale, con il suo rigore morale. Se il suo sguardo sul mondo si sposa con il tuo.
E insieme alla sua vespa, c’è ancora la capacità di indignarsi e la voglia di combattere, che si tratti di criticare duramente il governo per la violenza con cui ha cacciato i vertici del Centro Sperimentale di Cinematografia (a proposito, ha ragione Michele Placido: Moretti sarebbe perfetto alla guida) o di dedicare il cuore del suo ultimo film all’abuso, puramente stilistico e compiaciuto, della violenza nel cinema (come dimenticare l’intemerata contro “Henry pioggia di sangue” in Caro Diario?).

C’è ancora la capacità profetica, divinatoria quasi, di anticipare le cose.
Dalla impressionante coincidenza della condanna a Silvio Berlusconi fino all’assalto che sembrava tanto quello a Capitol Hill ne “Il Caimano” alle dimissioni del Papa in “Habemus Papam”, che hanno incredibilmente anticipato quelle di Benedetto XVI.
E ammetto che, dopo la coincidenza dell’uscita de “Il sol dell’avvenire” che ha sullo sfondo l’invasione russa di Praga con l’aggressione putiniana all’Ucraina e col dibattito sull’abbattimento dell’orsa JJ4 sulla quale, nel film, viene chiesta un’opinione a Moretti, di essere tra quelli che lo hanno implorato di inserire la vittoria delle scudetto della Roma in una prossima opera.
Ma Nanni, che continuerà sempre a trovarsi “a mio agio e d’accordo con una minoranza delle persone”, è soprattutto un uomo libero.
Libero di criticare destra e sinistra, libero di riscrivere la storia del Pci rispetto ai fatti di Praga (“La Storia non si fa con i se. E chi l’ha detto? Io la Storia la voglio fare con i se!”), libero di distruggere ironicamente “Titane” di Julia Decournau con un meraviglioso post in cui si mostrava invecchiatissimo dopo la visione del suo film e di ritrovarsela due anni dopo presidente di giura a Cannes, quando è nuovamente in concorso.
Libero di prendersi in giro, di giocare con i suoi tic e le sue fisime – tra sabot, canzoni e gelati – con autoironia e malinconia, passando dall’urlare con rabbia “le parole sono importanti” al cantare con spensieratezza “sono solo parole” di Noemi, in uno dei momenti più belli dell’ultimo film.
Libero di raccontarsi con assoluta, totale sincerità al suo pubblico, persino nella malattia, affrontata con grande coraggio in Caro Diario e nel corto “Autobiografia dell’uomo mascherato”.
Libero di appassionarsi alla politica e di battersi per le sue idee, ma senza mai passare lo steccato. Dopo la stagione dei girotondi, che condusse con vera passione civile e qualche errore (dopo lo schiaffo di piazza Navona “Con questi dirigenti non vinceremo mai” venne, dal 2002 al 2006, una delle fasi più vincenti del centrosinistra italiano), rifiutó ogni impegno diretto o candidatura e tornò ad occuparsi di cinema.

Se penso ad un regalo che potremmo fargli per il suo compleanno, forse il più giusto è proprio quello di provare a raccontarlo e di godere dei suoi film, al di lá dei cliché che si è in parte autoassegnato e che lo circondano da sempre, sottrarre i suoi film alla pur ampia schiera di morettiani che lo adorano. Perché capolavori come “Bianca” o “La messa è finita” meritano platee sterminate. Perché le sconfitte che raccontano, nella ricerca di una felicità forse impossibile, di un assoluto difficile da raggiungere, riguardano ogni essere umano. Perché la preoccupazione su quello che sta diventando la societá italiana che innervava “Caro Diario” e “Aprile” è quella di ogni cittadino che abbia a cuore il proprio Paese. Perché il protagonista del “Caimano” erano i sogni spezzati di Silvio Orlando e il dramma della separazione, molto più che Berlusconi. Perché l’inadeguatezza dolente che imprigionava il protagonista di “Habemus Papam” è la nostra, prima che quella di un Papa. E quel balcone vuoto racconta il nostro tempo molto meglio dei trattati sulla crisi della democrazia.

Quante volte ci hanno raccontato un Moretti antipatico, chiuso, scostante, irraggiungibile? Ebbene, non è cosi. Grazie alla filiera “autarchica” che è riuscito a costruirsi negli anni con la Sacher, che gli consente un controllo totale sulle sue opere, dalla produzione alla distribuzione, Nanni può prendersi anche la libertà di fare qualcosa di concreto per gli altri.
Nessun cineasta è mai stato così generoso con i colleghi più giovani. È ormai lunghissimo, e in continuo aggiornamento, l’elenco di autori del che gli devono molto, che hanno cominciato con lui o che da lui hanno ricevuto sostegno decisivo all’inizio delle loro carriere: da Mimmo Calopresti a Daniele Luchetti, dall’indimenticabile Carlo Mazzacurati ad Andrea Molaioli o Susanna Nicchiarelli.
E a moltissimi altri ha offerto la sua platea e il suo cinema – il Nuovo Sacher, indispensabile presidio di cultura a Trastevere, aperto, gestito direttamente e tenuto in vita a costo di sacrifici economici – grazie a “Bimbi Belli”, il piccolo festival dedicato alle opere prime che organizza d’estate, giunto alla sua sedicesima edizione. Ogni anno, anche a costo di ritardare la lavorazione dei propri film, Moretti seleziona una dozzina di esordienti meritevoli ai quali offre una rassegna e un palcoscenico importante. Un pubblico di appassionati e addetti ai lavori e l’onore (e l’onere) di un confronto pubblico con lui, nel dibattito post proiezione. Ed è questo uno dei tratti che andrebbe ricordato maggiormente dell’autore di “Ecce Bombo” e “Palombella rossa“: la generosità di offrire un’opportunità a tanti giovani potenziali talenti, di dare a chi prova a incamminarsi in una carriera così difficile quello che lui, negli anni Settanta, non ha ricevuto dai maestri di allora. E non è una novità. Perché prima di “Bimbi Belli” c’era il “Sacher Festival”. Perché è sempre Moretti ad aver dato forza e sostanza alla monumentale operazione dei Diari di Pieve Santo Stefano.
Non è un vezzo autoreferenziale, la voglia di fare il mecenate di una corte plaudente. Niente affatto. La sua è autentica curiosità, voglia di scoprire il nuovo, di dare una chance al futuro.

E dopo essere stato autore, sceneggiatore, attore, produttore, distributore, esercente, per i suoi 70 anni Nanni si regala un nuovo inizio: il debutto da regista teatrale.
Porterà in scena, infatti, questo autunno, due racconti della sua scrittrice preferita Natalia Ginzburg: Dialogo e Fragole e Panna. “Diari d’amore” debutterà il 9 ottobre al Carignano di Torino e poi sarà in tournée a Bologna, Modena, al Piccolo di Milano, a Lugano, Napoli e fino a Roma all’Argentina a maggio 2024.
Una nuova avventura artistica, ancora.
La vita va avanti, per lui e per noi, come nella parata sui Fori Imperiali che chiude “il sol dell’Avvenire”, con Nanni che ci guarda e ci saluta. Il tempo un po’ guarisce, un po’ libera, un po’ consola, un po’ semplicemente trascorre. E porta con se insieme ad un pugno di film straodinari, la forza di uno sguardo – un po’ meno intransigente magari, ma non rassegnato (“Nella vita due o tre principi bisogna pur averli” ), l’ironia intelligente e la tensione morale (mai moralista) di un amico complice ed esigente. Insieme, speriamo, alla voglia di raccontarci ancora qualcosa di lui. E quindi, inevitabilmente, di noi.
Da parte mia, solo un augurio: quello di contraddire, fino in fondo, il malevolo e celebre appello che gli rivolse parecchi anni fa Dino Risi. Restaci il più a lungo possibile, Nanni, in mezzo a quello schermo. E nelle nostre vite.