Innumerevole l’elenco dei cani nella storia ufficiale, cerimoniale, degli Stati Uniti d’America. Se fosse un tema, dovremmo dire dell’animale domestico nella costruzione del consenso, da mostrare accanto al caminetto o sul prato di casa o piuttosto sotto la stampa d’epoca che, patriotticamente, mostri la leggendaria sarta Betsy Ross, colei che nel 1776 cucì la prima “Old Glory, la bandiera a stelle strisce. Non citeremo adesso Rin Tin Tin, che, sia detto per i curiosi di spigolature animaliste postume, riposa nel cimitero parigino dei cani e dei gatti di Asnières, semmai l’ultimo arrivato in ordine di tempo e di narrazioni, Major, il meticcio di Biden, un lupoide già apparso insieme al suo padrone nei report semiufficiali in rete. Che non si tratti di un cane “di razza” è già un messaggio politico in sé, senza però nulla togliere a Champ, pastore tedesco, quello sì fornito di pedigree, che gli risiede accanto, e non meno caro a Joe e a sua moglie Jill.

I cani nella storia del consenso, dunque. Valga su tutto la vicenda di Nixon con il cosiddetto storico “discorso di Checkers”, un cocker spaniel al centro di molte querelle. Era il 1952 quando Nixon, allora candidato alla vicepresidenza, pronunciò un lungo intervento in televisione per difendersi dall’accusa di utilizzare un fondo segreto per la sua campagna elettorale. Nel suo discorso, passato incredibilmente alla storia come il “Checkers speech”, Nixon disse che mai avrebbe rinunciato al cane che aveva ricevuto in dono, toccando le corde demagogiche dell’affetto verso il mondo animale, piccolo capolavoro di manipolazione fino alla salvezza della propria reputazione pubblica in un paese calvinista. Una volta eletto alla presidenza, lo portò tuttavia alla Casa Bianca.

Trasferendo ogni prospettiva nel mondo felino, occorre citare poi i Clinton e il loro Socks, il “first cat” morto più che ventenne. Certamente il più immortalato in foto degli animali domestici presidenziali della storia. Mantello bianco e nero (un “tuxedo”), la mascherina di Socks era diventata celebre insieme al muso di Buddy, il “first dog”, a entrambi verrà dedicato un libro “Dear Socks, Dear Buddy”, firmato da Hillary così da raccogliere fondi per opere di beneficenza. Resta memorabile lo scatto di Socks sul leggio nella sala stampa della Casa Bianca. Su questa strada, facendo marcia indietro, si arriva ai Kennedy e ai loro cocker spaniel. Tornando al tema del consenso nostrano, occorre pure ricordare il nostro Veltroni, quando pensò bene di mettere via il ritratto di Palmiro Togliatti per innalzare il poster di Bob Kennedy, scegliendo appunto l’immagine dove il fratello minore di JFK, pura dinastia di Camelot, passeggia in un giorno d’inverno sulla spiaggia di Martha’s Vineyard proprio con il suo cocker.

Non è un caso se, dagli anni Sessanta a metà dei Settanta, non c’era giardinetto frequentato da ragazze che non vedesse uno spaniel al guinzaglio lì a brucare l’erba, possibilmente fulvo; molti forse anche quello un lascito quasi morale, di stile, dei Kennedy. Svaniti i cocker, giungeranno infine i labrador, ma forse non è il caso di eccedere nell’anagrafe politica canina Made in Usa. Non volendo necessariamente citare Stubby, il cane da guerra più decorato e l’unico a essere stato promosso sergente dell’esercito statunitense per meriti in combattimento durante la prima guerra mondiale, va però ribadito che gli animali hanno sempre accompagnato le strategie del consenso, e probabilmente, anche adesso, per definire i primi scatti del passaggio dall’era Trump ai giorni di Biden il muso del meticcio Major dice già molto.

Chi volesse poi interrogarsi se Trump abbia mai avuto un cane, sappia dell’esistenza di un video realizzato durante un comizio dove il presidente ancora in carica fino a gennaio dichiara esplicitamente quanto detesti i cani. Trump è stato infatti il primo a non aver avuto un animale da compagnia alla Casa Bianca. George Washington, sia detto per completezza storiografica, addirittura li allevava e sarebbe, secondo certe fonti, il padre del foxhound americano. Così come Abraham Lincoln aveva Jip, e perfino un tacchino di nome Jack, che mai venne sacrificato per la cena di Natale. Talvolta i cani rientrano nelle relazioni diplomatiche, come Pushinka, figlio di Strelka, prima creatura vivente ad aver viaggiato nello spazio con una navicella sovietica, divenuta la mascotte della Casa Bianca. Nel giugno del 1961 addirittura John Kennedy scrive così a Nikita Khrushchev: «Caro signor presidente… La signora Kennedy ed io siamo stati particolarmente lieti di ricevere Pushinka. Il suo volo dall’Unione Sovietica agli Stati Uniti non è stato così drammatico come il volo di sua madre. Tuttavia è stato un viaggio lungo e lo ha affrontato bene». La prossima volta, tornando a noi, narreremo invece di Lampo, il cane ferroviere di Campiglia Marittima.

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Fulvio Abbate è nato nel 1956 e vive a Roma. Scrittore, tra i suoi romanzi “Zero maggio a Palermo” (1990), “Oggi è un secolo” (1992), “Dopo l’estate” (1995), “Teledurruti” (2002), “Quando è la rivoluzione” (2008), “Intanto anche dicembre è passato” (2013), "La peste nuova" (2020). E ancora, tra l'altro, ha pubblicato, “Il ministro anarchico” (2004), “Sul conformismo di sinistra” (2005), “Roma vista controvento” (2015), “LOve. Discorso generale sull'amore” (2018), "Quando c'era Pasolini" (2022). Nel 2013 ha ricevuto il Premio della satira politica di Forte dei Marmi. Teledurruti è il suo canale su YouTube. Il suo profilo Twitter @fulvioabbate