La sorte comune
I casi Mori e Cortese: sconfiggono la mafia ma lo stato li perseguita…

Renato Cortese non è più questore di Palermo dopo una condanna di primo grado. Mario Mori svolge ormai a tempo pieno la professione di imputato. Sembra di vedere lo Stato che come Crono mangia i propri figli. I più brillanti, quelli che hanno catturato Totò Riina e Bernardo Provenzano. Quelli che hanno sconfitto la mafia in Sicilia, mentre altri ancora si trastullano a cercar inesistenti prove di patti e trattative che avrebbero avuto il compito di concedere tregua ai boss in cambio di un ammorbidimento da parte dello Stato. Era stato portato in trionfo come un eroe, quando alle undici del mattino dell’11 aprile 2006 il capo della sezione “catturandi” della polizia Renato Cortese aveva scovato e ammanettato il capo dei capi di Cosa Nostra Bernardo Provenzano, chiudendo così il cerchio dei grandi latitanti.
L’assenza dei quali aveva reso monco il maxiprocesso voluto da Giovanni Falcone, in cui tutti i boss erano stati giudicati da contumaci. Per la cattura di Provenzano si dovrà aspettare fino al 2006. «Quell’anno – ha detto di recente Cortese, nella sua veste di questore di Palermo – segnala fine della mafia corleonese, stragista ed eversiva». La fine della mafia siciliana, in poche parole. Nessuno avrebbe immaginato, né quell’anno né undici anni dopo, quando il ministro dell’interno Minniti aveva sponsorizzato la carriera di questo calabrese prestato alla Sicilia, che il brillante poliziotto che aveva catturato il capo dei corleonesi sarebbe inciampato in un fattaccio grave di burocrazia “sporca” e che lo Stato lo avrebbe divorato dopo solo una sentenza di primo grado. È inciampato nel “caso Shalabayeva”, Renato Cortese, condannato a cinque anni di carcere e interdizione perpetua dai pubblici uffici (provvedimento che si attiverebbe solo in caso di condanna definitiva) per aver, nella sua veste di capo della squadra mobile di Roma, sequestrato e spedito in Kazakistan la moglie a la figlia di un dissidente e rifugiato politico.
L’evento, nel maggio 2013, aveva costretto il ministro dell’interno Angelino Alfano a rispondere in Parlamento e il suo capo di gabinetto a dimettersi. Ma non furono mai provate responsabilità penali di uomini del Viminale, così finirono a processo diversi poliziotti che parteciparono all’operazione, a partire dal capo della mobile Renato Cortese. La rimozione del questore di Palermo oggi, sette anni dopo i fatti, è stata immediata, pochi giorni dopo la prima sentenza. A poco valgono i servizi che il dottor Cortese ha reso al suo Paese, né il fatto che ci vorrà qualche anno prima di avere un giudizio definitivo, e che nelle istituzioni gerarchiche si eseguono degli ordini e infine che, pur nella gravità dei fatti, non ci sono stati morti né feriti. Tutto ciò conta poco, evidentemente. E il fatto che sia stata sconfitta la mafia in Sicilia anche con il contributo determinante di questo poliziotto non conta niente per il capo della polizia Gabrielli e il ministro dell’interno Lamorgese? Chissà se al Viminale ci fosse stato ancora Matteo Salvini come si sarebbe comportato….
Renato Cortese è giovane, ha cinquantaquattro anni. Mario Mori, brillante carriera nei “cugini” carabinieri, è andato in pensione proprio quando lui arrestava Provenzano e tredici anni dopo aver messo le manette a Totò Riina, il predecessore di Binnu ai vertici dei sanguinari corleonesi. Non sta godendo i suoi anni di riposo, anzi non glielo permettono proprio di rilassarsi nei suoi 81 anni. Dall’anno dell’inizio della sua pensione, il magico 2006 in cui con l’arresto di Provenzano si è data la botta finale alla mafia corleonese, Mario Mori ha subìto tre processi. Due li ha già vinti, nel primo round del terzo, quello sulla molto presunta “trattativa” tra lo Stato e la mafia, è stato condannato a 12 anni di carcere. Non ha avuto vita facile in Sicilia Mario Mori, se non negli anni in cui ha collaborato con Falcone prima e con Borsellino dopo, all’inchiesta su mafia e appalti, una brillante intuizione sul rapporto tra i boss e una bella fetta del mondo dell’imprenditoria e della politica palermitana. Borsellino era convinto che ci fossero quelle indagini di Mori e Falcone dietro la morte del suo amico Giovanni. Ma poi fece la sua stessa fine e l’inchiesta svanì, archiviata, restando nella storia siciliana come il primo e principale punto di scontro tra la procura di Palermo e il generale Mori.
Frattura che raggiunse il suo culmine quando fu arrestato Totò Riina, il 15 gennaio 1993, a Palermo. La strategia di Mori e del suo braccio operativo, il capitano De Caprio, mirava a eliminare tutto il gruppo dirigente dei corleonesi attraverso un paziente lavoro di intelligence, intercettazioni e pedinamenti. Senza fretta. Il procuratore Caselli, nominato proprio quel giorno al vertice della magistratura inquirente di Palermo, gli aveva dato fiducia. Ma alcuni ragazzi di procura avevano fretta. E qualcuno informò la stampa sia sui luoghi frequentati dal vertice di Cosa Nostra che sull’esistenza di un nuovo “pentito”, Balduccio Di Maggio. Così, dopo la brillante operazione dell’arresto di Riina che, nelle intenzioni di Mori, doveva apparire un fatto casuale e isolato, si volle procedere con altri fermi e perquisizioni che vanificarono il successo dell’intera operazione.
Mario Mori, l’uomo famoso nel mondo per aver arrestato Totò Riina, non ricevette medaglie ma processi. Fu accusato in un primo momento di favoreggiamento per non aver perquisito subito l’appartamento di Riina a Palermo e poi, con una clamorosa giravolta della procura, di aver agito per la “ragion di Stato”, cioè per aprire la strada alla famosa “trattativa” con la mafia. La sentenza del 2006 che assolve Mori e Di Caprio è un capolavoro, una vera mitragliata contro il processone “trattativa”. I pm dell’accusa, Antonio Ingroia e Michele Prestipino non avranno il coraggio di prestare appello. A questa prima sentenza si affiancherà l’altra della cassazione, che avrà il compito di zittire ancora due ragazzi di procura, il solito Ingroia e il fratello gemello Nino Di Matteo, che nel 2008 avevano accusato Mario Mori e il colonnello Mauro Obinu di aver assecondato la latitanza di Provenzano per non aver creduto alla soffiata di un pentito. Perché lo avrebbero fatto? Sempre per garantire un patto siglato tra le istituzioni e Cosa Nostra.
Questa storia infinita della “Trattativa” pare non esaurirsi mai. Ma la domanda è: lo Stato nelle sue istituzioni di governo, i presidenti del consiglio, i ministri di giustizia e degli interni, si decideranno mai a togliere i loro figli migliori, quelli che li hanno aiutati a sconfiggere una mafia tremenda e sanguinaria, dalle grinfie di questo tipo di magistratura, da questo partito dei pm? Presidente Conte, ministro Lamorgese, restituite il suo posto alla questura di Palermo al dottor Renato Cortese. E già che ci siete, dategli anche una medaglia per quel che ha fatto nel 2006. E poi, una volta adempiuto a questo dovere, ricordatevi anche del generale Mario Mori, dei meriti che ha avuto e dei torti che ha subito. Toglietelo dagli artigli dei pm “trattativisti” e di medaglie dategliene due, una per aver arrestato Riina e l’altra per la pazienza stoica con cui sta subendo torture dal 2006.
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