La sua è una testimonianza appassionata, partecipe, di una vicinanza al popolo ucraino che non passa per l’invio di armi. Silvia Stilli, portavoce dell’Associazione delle organizzazioni italiane di cooperazione e solidarietà internazionale (Aoi), che rappresenta più di 500 organizzazioni non governative, interne e internazionali, è appena rientrata da una missione di solidarietà in Ucraina nell’ambito della campagna Stopthewarnow, della quale fanno parte più di 180 organizzazioni non governative.

A quanti, nei salotti mediatici o dalle pagine della stampa mainstream, continuano a chiedere “ma dove stanno i pacifisti”, la risposta di Stilli: i pacifisti sono a Odessa, a pochi chilometri dalla linea del fronte, e voi? “Se da un lato si negano fondi alle Ong presenti in Ucraina dall’altro si aumentano gli armamenti al Paese – ha affermato Stilli a più riprese- . Naturalmente riconosciamo il diritto inalienabile di un popolo di difendersi. Ma bisogna allora dire con chiarezza che l’Italia ha deciso di prendere le distanze dalla sua Costituzione – che all’articolo 11 ripudia la guerra come strumento di risoluzione dei conflitti – e dal ruolo delle Nazioni Unite”.

Lei è appena rientrata da una missione di pace in Ucraina. Cosa le rimane di questa esperienza vissuta sul campo?
Mercoledì abbiamo concluso la quinta carovana di aiuti umanitari nell’ambito della campagna stopthewarnow. Siamo a un totale di oltre 80 tonnellate dall’aprile di un anno fa. Abbiamo portato non solo cibo ma anche generatori. Abbiamo fatto arrivare a Odessa un grosso generatore di 200 kilowatt all’ospedale pediatrico. Le volontarie e i volontari della Papa Giovanni XXIII stanno lì da agosto e organizzano le carovane con gli ucraini, altrimenti non sarebbe possibile attraversare le frontiere ed entrare. Stavolta siamo entrati con una trentina di pulmini, tra cui quelli di Libera, Mediterranea, Aoi, Focsiv, e varie altre organizzazioni, centocinquanta persone, ventuno generatori e venti tonnellate di aiuti. In questa occasione non siamo andati a Leopoli ma in zone fronte, a 40 chilometri da Kherson, a Nikolaev.

Cosa avete trovato?
Nikoalev era una città commerciale, collegata ad Odessa, dove erano tenuti in stoccaggio le merci di qualsiasi genere. Oggi è una città fantasma, dove ci sono tanti anziani. Ci sono anche tanti bambini e giovani che vanno e vengono dal fronte. Questo è il primo elemento. Noi eravamo ospiti di una comunità evangelica con un’associazione “Youth of Ukraine” che si occupa di aiuti umanitari e che fa la distribuzione. Occorre tener presente che gli aiuti che arrivano in queste zone sono aiuti militari, non è il cibo e non è l’acqua, In un anno abbiamo realizzato dieci dissalatori, acquistando il materiale dall’Ucraina, da Kiev, e lavorando lì. Il primo messaggio è la vicinanza ad una popolazione civile lasciata sola, alla quale si chiede soltanto di dare forze per il fronte.

Come siete stati accolti?
Molto meglio di come eravamo stati accolti a Leopoli. A un anno di distanza, il parlare di pace portando gli aiuti in continuità con uno sciame solidale in questo anno, ha costruito qualcosa di importante. Quando parlo di sciame solidale non mi riferisco solo alle iniziative messe in campo dalle cinque carovane ma anche all’arrivo di pulmini per conto loro, sempre della rete stopthewarnow, la presenza di giovani italiani lì, da agosto in maniera alternata. Tutto questo ha fatto sì che si stabilisse un rapporto forte con la popolazione civile più vicina al fronte. Questa è la cosa principale. Quello che abbiamo sentito questa volta è anche la loro insofferenza alla guerra. I giovani vanno al fronte, lo sentono come un dovere per salvare la loro gente e la loro dignità. Mentre andavamo via sono arrivati i droni russi sul porto di Odessa, bombardandolo. La quotidianità è questa. Loro sentono di doversi difendere e non potrebbe essere altrimenti. Vogliono sentirci parlare dei partigiani, cantare Bella ciao, raccontare la storia della resistenza antifascista. Si sentono vicini a questo. Ma al tempo stesso quando si cantano canzoni di pace e si parla di pace, come abbiamo fatto in quelle sere, ci hanno detto che anche loro vogliono la fine della guerra. Noi gli spiegavamo che volevamo un tavolo coordinato dalle Nazioni Unite, un tavolo di diplomazia urgente, loro dicono fate bene e naturalmente ci mettono il loro.

Vale a dire?
Tutti ci hanno detto: non vogliamo che l’Ucraina esca svilita, senza dignità dal tavolo delle trattative. Non gliene frega nulla di questa questione zelenskyana della Crimea. Non ti rispondono nemmeno. Non è la riconquista della Crimea il loro assillo.

E i militari come si sono rapportati a voi pacifisti?
Questo è un altro aspetto importante. I militari hanno avuto con noi un atteggiamento differente dal passato. In questo anno non ci vedevano bene. Il fatto di non portare gli aiuti a loro ma alla popolazione civile gli scocciava. Adesso alcuni colleghi, quelli più esperti della Papa Giovanni XXIII, il giorno dopo, quando la carovana è ripartita, sono rimasti e sono andati a portare gli aiuti direttamente a Kherson, al fronte. I militari li hanno accolti bene, gli hanno chiesto di andare fino al fronte, uno dei volontari c’è andato a vedere com’è organizzato. Gli hanno fare anche dei video chiedendogli ovviamente di non diffonderli per motivi di sicurezza. Ci siamo fermati a degli autogrill dove sentendo parlare Italia ci hanno detto “spasiba” (grazie in russo, ndr) di continuo. Tenga conto che in quelle zone si parla prevalentemente russo. “Italiani, spasiba”. Una roba per me incredibile. Forse perché avevo frequentato Leopoli, Ivano- Frannkivs’k, cioè zone lontane dal fronte di guerra dove c’è un nazionalismo meno collegato alla concretezza della vita di ogni giorno, vado a difendere la mia patria, ma più connesso all’ideologia, i russi sono dei delinquenti, degli assassini, e basta. Bisogna riprenderci la Crimea etc. Nelle zone in cui siamo state stavolta questo non c’era, assolutamente. E quello è il fronte, con la guerra davanti. Anche noi, noi pacifisti dobbiamo fare un ragionamento su questo.

Quale?
Meno manifestazioni e più vicinanza. In fondo, in Bosnia abbiamo fatto questo. Gli italiani durante gli anni della guerra nella ex Jugoslavia, hanno portato messaggi di pace, hanno lavorato per il dialogo, mentre portavano gli aiuti e stavano là e facevano uscire le persone. È questa la chiave importante. Quella del dialogo. Abbiamo parlato con i sindacalisti ad Odessa, partner della Cgil, i quali dicono anche loro: dobbiamo difendere la nostra terra, la nostra dignità, ma ci hanno detto anche fate bene, vi sosteniamo nel chiedere un tavolo delle trattative che però tuteli l’Ucraina. Io sono tornata più che mai convinta dell’importanza dell’aiuto umanitario e della solidarietà concreta. Qualcosa di materialmente indispensabile, sennò loro non hanno da mangiare. A Nikolaev, lo devo dire, io non ho visto l’Unhcr, la Croce Rossa. Li ci arrivano gli aiuti delle Caritas e gli aiuti internazionali. Punto. Così come è importante rafforzare il dialogo con gli obiettori di coscienza alla guerra, in Ucraina. E in Russia, che perseguita chi manifesta contro.

Partendo dalla vostra esperienza, si può affermare che si può essere solidali con il popolo aggredito senza ridurre il tutto solo all’invio di armamenti?
Assolutamente sì. Perché la popolazione civile è comunque vittima della guerra, anche se sceglie di difendere e di difendersi. Sì, si può essere solidali in modi diversi da quello, sostanzialmente “riarmista”, praticato dall’Europa e dall’Italia. Lo abbiamo colto anche nelle parole dei diplomatici italiani che stanno in Ucraina. Il fatto che si è dato troppa enfasi all’aiuto militare e meno impegno sull’aiuto alla popolazione civile. Noi abbiamo ricevuto un ringraziamento dal nostro Ambasciatore che ci ha detto grazie di esserci, di questa vicinanza alla gente, grazie di aver portato questi aiuti perché li portate a nome dell’Italia. Si è colto in quelle parole anche il senso che l’Italia non può essere soltanto quella che fa le trattative per mandare gli aiuti militari. Un Paese come il nostro che ha nella sua Costituzione un articolo importante come l’articolo 11, che ripudia la guerra come risoluzione delle controversie, non può essere contraddistinto soltanto da questo. Fino ad oggi poco si è fatto, istituzionalmente, dal punto di vista umanitario. In questo senso l’Ucraina non è un caso isolato. Siamo in un contesto di conflitti aperti in tutto il mondo e quindi di emergenze umanitarie forti. A fronte di questa situazione globale gli investimenti in cooperazione e aiuto allo sviluppo del nostro Paese e non soltanto, sono del tutto insufficienti per rispondere a queste crisi umanitarie, come nel caso della Siria. In Ucraina dove c’è un impegno forte dell’Europa, la parte d’investimenti legati agli aiuti umanitari è lasciata alle organizzazioni internazionali e non ad un impegno in progetti e attività che coinvolgano le Ong, che come dimostra anche la carovana continuano a sostenere l’emergenza umanitaria direttamente. C’è un disimpegno complessivo dell’Italia sia in aiuti allo sviluppo che nel far fronte a impegni sottoscritti in protocolli internazionali sulle emergenze umanitarie, come nel caso, non isolato, della crisi siriana.

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Esperto di Medio Oriente e Islam segue da un quarto di secolo la politica estera italiana e in particolare tutte le vicende riguardanti il Medio Oriente.