Il presidente Donald Trump, dopo averli introdotti, ha annunciato il 9 aprile una sospensione di 90 giorni per l’entrata in vigore dei dazi aggiuntivi sulle importazioni negli Stati Uniti. Restano però in vigore i dazi del 145% sulle merci cinesi e quelli del 25% che colpiscono Messico e Canada. I dazi base rimarranno quindi al 10% per tre mesi e per tutti i paesi su tutte le merci annunciate il 2 aprile, dall’agroalimentare al tessile. Su acciaio e alluminio rimangono invariate le imposte del 25% valide dal 12 marzo e anche sulle auto sono tuttora attivi i dazi del 25% scattati dal 3 aprile. Di seguito l’amministrazione americana ha deciso di esentare dai dazi diversi materiali tecnologici provenienti dalla Cina, tra cui gli smartphone e gli hard disk.

I dazi (o tasse doganali) sono imposte applicate sui beni importati o esportati da un paese e sono adottati soprattutto per proteggere le industrie nazionali ovvero per aumentare le entrate pubbliche, nonché per influenzare le relazioni commerciali. L’obiettivo del piano di Trump è quello di riportare in Usa le produzioni strategiche, dai chip ai medicinali, dall’acciaio all’alluminio e alle auto per non dipendere da Paesi stranieri. Le imprese nazionali americane formalmente potrebbero beneficiare della riduzione della concorrenza estera grazie ai dazi protettivi, ma nella sostanza in un mondo globalizzato, con economie sempre più interconnesse e interdipendenti, le aziende che dipendono da materie prime importate devono fronteggiare costi più elevati riducendo la competitività dei propri prodotti.

In ogni caso la riorganizzazione delle attività operative e di approvvigionamento dà luogo alla crescita dei costi generali per qualsiasi settore. Peraltro con un tasso di disoccupazione pari al 4,2%, trovare lavoratori negli USA per aumentare l’offerta sarà quasi impossibile. I dazi pertanto aumentano i costi di produzione e riducono la competitività delle imprese mentre per i consumatori aumentano i prezzi. In questo scenario il dollaro continua a indebolirsi e l’incertezza incombe sugli investitori; infatti dall’insediamento della nuova amministrazione americana il valore delle azioni statunitensi si è ridotto del 10%. I settori più colpiti sono quello automobilistico e tecnologico nei quali figurano aziende quali Ford, General Motors, Tesla ed Apple. I dazi al 145 per cento verso la Cina sarebbero devastanti soprattutto per le aziende tecnologiche statunitensi con enormi rincari per i consumatori. Si pensi ad esempio agli iPhone; nel 2024, l’81 per cento degli smartphone importati negli Stati Uniti proveniva dalla Cina, il restante dall’India.

La politica protezionistica degli Stati Uniti quindi potrà portare pertanto inflazione elevata, riduzione degli investimenti, instabilità finanziaria (a causa della perdita di fiducia degli investitori), riduzione della disponibilità di capitali per le imprese e stagnazione economica globale. A riprova di quanto descritto l’Organizzazione mondiale del commercio (WTO), si ritiene che l’incertezza generata dalla politica commerciale degli USA potrebbe portare ad un calo del commercio mondiale tra lo 0,2 e l’1,5% quest’anno. Inoltre l’agenzia di rating Fitch ha ridotto le sue previsioni di crescita mondiale, in risposta alla guerra commerciale scatenata dagli USA. Il Pil globale dovrebbe infatti scendere sotto il 2% quest’anno, con un taglio della crescita mondiale nel 2025 dello 0,4% e quella di Cina e Stati Uniti dello 0,5%, mentre la crescita dell’Eurozona rimarrà bloccata ben al di sotto dell’1%.

Davide Rossetti

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