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La soluzione? Seguire Draghi sulla competitività
I dazi Usa minacciano auto, food e lusso: Trump vuole tassare del 60% il made in Cina e del 20% le esportazioni europee
L’Europa si sta già dimostrando spaventata e, di conseguenza, esposta al fianco delle provocazioni. Vietato spaccarsi: reagire in ritardo sarebbe fatale.
Sui dazi che Trump vorrebbe imporre alle importazioni in Usa, una volta entrato alla Casa Bianca, serve chiarezza. Bisogna capire quanto saranno reali, in che misura e come l’Europa potrà cautelarsi. Le tariffe doganali infatti sono uno strumento delicato che, una volta innescato, può provocare una spirale difficile da gestire. In termini di inflazione, speculazioni e rapporti geopolitici. Partiamo dal fatto che The Donald non è ancora presidente. Per come è fatto, le provocazioni attuali rientrano nella tattica di combattimento. Le sue esternazioni sono interpretabili quindi come delle prove di carotaggio. Finora la controparte europea ha reagito male. Anche quella cinese, ma in maniera più pragmatica. Il panico preventivo di Bruxelles sembra andare nella direzione auspicata dal presidente eletto. Ci stiamo dimostrando spaventati e quindi esposti al fianco di provocazioni che, plausibilmente, andranno a crescere. Ricordandoci il discorso di insediamento di Trump nel gennaio 2017, possiamo ipotizzarne uno altrettanto aggressivo.
Il futuro presidente intende risolvere una serie di criticità che l’economia Usa ha accumulato da anni. Ridurre i deficit commerciali – con Cina ed Europa per prima cosa – aumentare le entrate fiscali, grazie appunto alle tariffe sull’import, e infine “make dollar strong again”. La maggior parte degli analisti, di qualunque estrazione, dice che il protezionismo non è la strada giusta. Fa, appunto, da detonatore a reazioni simmetricamente aggressive. Vedi Pechino. E alla fine porta all’indebolimento dell’intera economia globale. Tuttavia c’è un distinguo. I rapporti Usa-Cina e Usa-Europa non sono la stessa cosa. Sia ora con Biden, sia dopo con Trump. In entrambi i casi, la bilancia commerciale di Washington è in deficit: poco meno di 350 miliardi di dollari verso Pechino, quasi 190 miliardi verso l’Eurozona.
Il progetto del presidente eletto è di tassare del 60% – ma anche di più – il made in China e del 10-20% le esportazioni europee. Mentre sul primo dossier l’atteggiamento è muscolare e ideologico, sul fronte europeo non va scartata l’eventualità che Trump pensi di propinarci uno spezzatino. Fiutate le divisioni interne e intuita la debolezza della Commissione, il mood potrebbe essere negoziale. Cortese con gli amici, muso duro con chi l’ha attaccato durante la campagna elettorale. Fin dai tempi della guerra in Iraq nel 2003, il divide et impera di Washington miete vittime da qua dell’Atlantico.
Oggi disunire la Ue potrebbe avere delle conseguenze ancora più significative. Automotive, agroalimentare e beni di lusso sono le prime filiere che cadrebbero sotto i colpi delle tariffe. Tenendo conto che l’auto è messa male di suo, l’agrifood si sta ancora leccando le ferite per il Green Deal e il lusso ha bacino di mercato circoscritto, è lecito chiedersi cosa resterebbe dei tre se dovessero perdere il consumatore americano. Alla prima ondata di vittime ne seguirebbero altre, con la conclusione di una contrazione del 2% di tutta l’economia europea.
Elaborata questa paura, bisogna chiedersi quanto sia orgogliosa l’Europa per poter reagire e con quali mezzi. Dazi con dazi è la prima reazione istintiva. Probabile che Trump se lo aspetti. Tuttavia, mentre l’economia Usa può fare meno di noi – più o meno – l’economia europea avrebbe un bel da fare per riallocare i suoi prodotti. Tanto più che il trattato con il Mercosur sta saltando. C’è poi l’ipotesi che il made in China, bloccato alla frontiera Usa, venga dirottato a casa nostra. Non che ne sentissimo la necessità!
Quindi si torna alla competitività draghiana. Che tutti conosciamo a memoria, ma per la quale nessuno ha ancora mosso un dito. Certo, la Commissione è appena nata. Giusta obiezione. Tuttavia la neutralità energetica, la fornitura di materie prime critiche, la produttività interna, il consolidamento di un mercato domestico in grado di assorbire il surplus di prodotti sono problemi che Draghi ha soltanto messo in fila. E di cui Bruxelles si è accorta solo ora. Il rischio quindi è che ai dazi di Trump si reagisca in ritardo o etichettandoli come la colpa di tutti i mali. Cos’è peggio?
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