La contrapposizione
I dem non hanno respinto il trumpismo e ora temono una democrazia illiberale
Biden ha bruciato i 7 milioni di voti popolari in più rispetto a The Donald. Adesso i democratici sono in allarme per le sorti dello Stato di diritto Usa

Come ha scritto nel suo blog lo storico degli Stati Uniti Arnaldo Testi, l’epoca reaganiana ha inaugurato quella cultura politica neoliberale che sarà ripresa in versione light dai “News Democrats” alla Bill Clinton: meno Stato e più mercato, deregulation dell’economia, welfare state ridimensionato, ma anche nuovi diritti individuali (Short Cuts America, 17 aprile 2025). La coalizione democratica che assegnò la vittoria a Barack Obama – composta da ceto medio progressista, minoranze etniche e razziali e cittadini di recente immigrazione – sembrava destinata a restare maggioritaria nel Paese. La sua riforma più significativa, la riforma sanitaria, indicò un nuovo interventismo pubblico nei rapporti sociali e nel mercato.
La nuova politica industriale
L’elezione di Donald Trump nel 2016 fu la reazione a questa ipotesi di cambiamento. Una reazione rabbiosa e demagogica, tuttavia minoritaria nel voto popolare, sostenuta da movimenti ultraconservatori ostili al governo federale. Joe Biden, che sconfisse il repubblicano nel 2020, era convinto di chiudere definitivamente la parentesi trumpiana. Ma per aprire un nuovo ciclo politico era necessario recuperare il consenso della maggioranza della classe operaia bianca. Per questo c’era bisogno di una politica industriale che riportasse la manifattura e le “supply chains” (catene di approvvigionamento) in patria, e quindi di un energico “big government” riformatore come ai tempi del New Deal. Non è stato così. Le sue politiche sono state inefficaci, lente a produrre effetti, o proprio sbagliate. E i 7 milioni di voti popolari in più rispetto a Trump che vantava nel 2020 si sono sciolti come neve al sole.
La contrapposizione
Ora il punto è se il ritorno del tycoon newyorkese sanzioni l’emergere di un nuovo “regime” nel sistema costituzionale americano, trainato dalla raffica dei suoi ordini esecutivi e dalla dichiarazione di una dubbia emergenza nazionale (che gli consente di estromettere il Congresso nella politica tariffaria e nella politica estera). La verità è che gli eventi traumatici del 6 gennaio 2021, l’unico passaggio di poteri non pacifico dai tempi della Guerra civile (1861-1865), hanno aperto una ferita nella democrazia americana che non si è ancora rimarginata. I due partiti principali incarnano ormai una contrapposizione tra due visioni del mondo inconciliabili, che può mettere in discussione le regole del gioco democratico.
L’identità che rischia di essere cancellata
Il senso di frustrazione che molti elettori conservatori delle aree rurali nutrono nei confronti delle “élite cosmopolite”, percepite come dominanti, è ormai una realtà consolidata. La scelta di J.D. Vance come candidato alla vicepresidenza ne è un chiaro simbolo. Se, come sostengono numerosi esponenti repubblicani, l’identità americana rischia di essere cancellata da un’immigrazione fuori controllo, allora l’urgenza di estromettere i democratici dal potere diventa prioritaria rispetto a qualsiasi altra considerazione. Anche a costo di oltrepassare i limiti della legalità o di alimentare proteste popolari. E se, per molti democratici, i repubblicani rappresentano una minaccia esistenziale alla “società aperta” immaginata dai padri fondatori, allora impedire loro l’accesso al potere diventa una missione cruciale, quasi una forma di autodifesa civile e democratica.
In questo quadro, dalla forzatura cruda ed estrema dei poteri presidenziali, a cui stiamo assistendo, si può concludere che l’America può diventare una democrazia illiberale? Il rischio c’è. Del resto, studiosi del bonapartismo (o cesarismo) come Tocqueville, Weber e Franz Neumann hanno osservato che esso nasce e si sviluppa quando cedono gli argini dello Stato di diritto.
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