Lo sguardo freddo al G7, i botta e risposta sull’aborto, gli scontri diplomatici sfiorati a più riprese. Il rapporto tra Emmanuel Macron e Giorgia Meloni è sempre stato piuttosto turbolento. A certificarlo è stata anche l’assenza di smentite di facciata, a cui di solito si ricorre quantomeno per provare a coprire una verità. Tra i due invece accade tutto alla luce del sole. Destini diversi, destini incrociati. Solo un mese fa, alla chiusura delle urne, l’Europa ha cambiato volto: l’avanzata della destra in Francia e in Germania, l’affermazione di Fratelli d’Italia nel nostro paese dopo un anno e mezzo di governo. Un quadro che ha permesso al presidente del Consiglio di rivendicare un risultato inappellabile: l’Italia è la nazione che può godere di maggiore stabilità e, in forza di questo, è pronta a giocare un ruolo di primo piano nell’Ue. Mentre a Parigi la situazione era del tutto differente: Rassemblement National oltre il 31%, l’Assemblea nazionale sciolta e nuove elezioni convocate. Tradotto: Meloni mostra i muscoli, Macron è in ritirata. Ma si sa: in politica ogni singolo secondo può cambiare il corso delle cose. E infatti, dopo appena 30 giorni, il contesto politico ha assunto una diversa fisionomia.

Intanto la leader di FdI deve fare i conti con due importanti spine. La prima ce l’ha in casa e corrisponde al nome di Matteo Salvini. Che con toni euforici ha aderito a Patrioti per l’Europa, la nuova piattaforma politica lanciata dal premier ungherese Viktor Orbán. Conta 84 membri e diventa così il terzo gruppo al Parlamento europeo, superando Ecr che – dopo l’addio degli spagnoli di Vox – scende a 78. E i conservatori devono prestare attenzione al possibile sorpasso di Renew, ora a 76. La Lega si aggiudica così, almeno per ora, la corsa per strappare l’ultimo gradino del podio dell’emiciclo. Dal centrodestra tengono a rassicurare: non ci sarà alcun impatto sull’esecutivo. Il Papeete 2.0 sembra essere escluso, ma gli equilibri nella coalizione a livello europeo sono cambiati. E di certo non a favore di Meloni.

L’altro ostacolo che complica il percorso di Meloni si trova sul tavolo delle trattative dei capi di Stato e di governo dei paesi dell’Ue. L’Italia ha deciso di strappare e di negare il via libera all’estone Kaja Kallas (Alto rappresentante per la politica estera) e al portoghese António Costa (presidente del Consiglio europeo), mentre si è astenuta sulla bis di Ursula von der Leyen alla guida della Commissione. L’isolamento è un rischio che non possiamo permetterci. Anche se, va detto, prima di decretare il fallimento totale del “progetto Giorgia” bisogna attendere la prova dell’Aula: se i franchi tiratori dovessero impallinare von der Leyen allora Meloni ne uscirebbe con una posizione di vantaggio. La vera partita comunque resta quella sui commissari europei: si parla di un ruolo riservato all’Italia con delega al Bilancio, al Pnrr e ai fondi di coesione. Un vestito che sembra cucito a misura per Raffaele Fitto. Regnano i “se”, i “ma”, i “forse”: tutto è incerto. Anche questo è un terreno scivoloso: senza un portafoglio di peso ci sarebbero i margini per definirla una disfatta.

Sull’altro fronte, sul conto di Macron i professionisti compulsatori social avevano già emesso sentenza. Il voto anticipato? Una mossa scellerata che avrebbe consegnato la Francia nelle mani di Rassemblement National. Al primo turno il partito di Jordan Bardella si impone con il 33%, il Nuovo Fronte Popolare si attesta al 28%, Ensemble scende al 20%. Emmanuel sembra spacciato, fuori dai giochi, al capolinea. Ma sfodera la scommessa delle desistenze e così al secondo turno, facendo asse con il NFP di Jean-Luc Mélenchon, fa da argine alla destra scongiurando il successo di RN. La difficoltà di individuare un vero vincitore, il caos politico e il rischio ingovernabilità non possono essere negati. Così come non si può mettere in discussione l’abilità con cui Macron è riuscito a scrollarsi di dosso il peso e l’immagine di un presidente debole, sfiduciato e all’angolo. Una sorta di atterraggio di emergenza che ora, seppur con tutte le difficoltà del caso, gli garantisce una postura dritta e non del tutto ballerina.

Così il paragone tra Emmanuel e Giorgia torna d’attualità. Strade e percorsi distinti. Ma nell’oceano di diversità c’è una variabile che accomuna entrambi: il cambio del proprio destino. Lui, da sconfitto zoppo e remissivo a politico che si salva facendo nient’altro che politica. Lei, da indiscussa vincitrice e potenziale leader europea a presidente che sale al volo sull’ultimo treno delle speranze per poter rivendicare un traguardo.