Campo largo permanente
I dilemmi del Pd, il partito che dai salotti combatte il nemico di turno con il “fai rumore”
Si candida ad essere sinistra, centro moderato, perno dei governi tecnici ma anche ostaggio di un perbenismo talmente spinto da sconfinare presto nel woke
“Non mi riconosco più in un partito che non ha saputo costruire un’identità. Che non rappresenta i valori del riformismo democratico”. Parola del co-fondatore del Pd, Francesco Rutelli. Era il lontanissimo 2009, e intanto il Paese si avvitava, secondo l’ex leader della Margherita, in “un populismo che sta logorando il Paese, l’economia, la società, lasciando crateri e non orizzonti per il futuro della politica”. La profezia di Rutelli veniva da lontano. La scommessa tradita di creare un partito riformista partì dalla Bolognina edizione 1989.
Il Dna ambiguo: antioccidentali fuori e no a riforme strutturali
Allora, un lacrimante Achille Occhetto provava a traghettare il partito comunista oltre il comunismo. Ma lo faceva saltando a piè pari la tradizione socialista e socialdemocratica. Quella che aveva gestito il dopoguerra con una sola bussola: le scelte di campo. Per l’alleanza atlantica, l’europeismo, l’economia di mercato, i diritti civili, il progresso sociale, la tutela dei lavoratori. Lo fecero non solo i socialisti scandinavi, i laburisti inglesi o la tedesca Spd, ma anche i francesi, gli spagnoli, i portoghesi. Persino i greci. E naturalmente i socialisti italiani. Ma il partito più forte della sinistra italiana no. Preferì rimanere ancorato al suo Dna: alleanze internazionali antioccidentali, avversione al processo europeo e scelte contrarie al centrosinistra, alle riforme strutturali e persino allo statuto dei lavoratori.
Perbenismo spinto che sconfina nel woke
Il colpo di mano della rivoluzione giudiziaria dei primi anni ‘90 ebbe un effetto che nell’immediato sembrò salvifico. In realtà, fu la scorciatoia che inchiodò il percorso dell’ex Pci ad una costante ambiguità e alla insuperabile fascinazione per il populismo. Una sorta di partito del Bene universale che si candida ad essere tutto: sinistra, centro moderato, perno dei governi tecnici e ostaggio di un perbenismo talmente spinto da sconfinare presto nel woke. Un Campo largo permanente che, come parametri inviolabili, ha il giustizialismo in politica interna e un sostanziale neutralismo in politica estera. Un partito che non ha alcuna remora a provare a mettere insieme chiunque: ieri si diceva “da Mastella a Bertinotti”, oggi da Calenda a Fratoianni. Tanto, per dire tutto e il suo contrario ogni ospite è il benvenuto. Anche un Giuseppe Conte schierato con Putin e Donald Trump. Anche un Matteo Renzi schierato contro il suo Jobs act.
I circuiti elitari e salottieri Dem e il nemico di turno
Si tratta di una vocazione integralmente ereditata dal Pci. La differenza è che quello era un grande partito di popolo che anelava al rapporto con la Dc in nome delle comuni radici popolari, mentre il Pd attuale sconta la deriva ZTL: come la gran parte della sinistra europea, ha finito per rinchiudersi nei circuiti elitari e salottieri delle classi eternamente dirigenti, che per di più in Italia trova sintesi politica sempre e solo in un nemico. Da Craxi a Berlusconi, da Renzi a Meloni, fino ad inventarsi persino un Roberto Vannacci d’occasione, c’è sempre alle porte un mostro autoritario da fronteggiare con una immaginaria resistenza, che però si combatte sulle accoglienti pagine dei giornali che ospitano ultimativi appelli accademici per la democrazia in pericolo.
Da Decaro a Toti, da Gentiloni a Fitti, i dilemmi
Così, le spinte progressiste e civili del voto di sinistra finiscono per produrre una lunga serie di dilemmi. Il partito che, giustamente, si indigna per la campagna di fumo contro Antonio Decaro a Bari è contro ogni timido passo di garantismo e a Genova va a manifestare sotto casa di Giovanni Toti per chiederne la testa, senza che vi siano non solo prove di reato ma neppure il reato. Il partito che dal governo ha guidato anche una guerra senza mandato Onu, resta esitante sulle azioni di difesa decise dal blocco occidentale. Il partito che ha espresso Paolo Gentiloni al vertice dell’Europa, con il consenso del centrodestra, si divide nel dare il suo alla nomina di Raffaele Fitto in un ruolo forse ancora più rilevante.
Il “Fai rumore” che disturba chi lavora
Contraddizioni del partito estremista di potere che Elly Schlein guida con piglio fermo ma parole piuttosto mobili. D’accordo, vuole “portare il Pd verso il futuro, e questo vuol dire costruire cicli positivi di circolarità che escano dal modello lineare”. Magari per qualcuno il concetto è chiaro. Ma il suo movimentismo parte da un presupposto discutibile. Citando il cantante Diodato, la segretaria afferma che “se ai nostri elettori chiedessero di dedicarci una canzone, una di queste probabilmente sarebbe ‘Fai rumore’”. Ecco, è questo il punto. I partiti socialdemocratici e riformisti odiano il rumore. Perché disturba il lavoro vero e oscuro per sostenere i meriti, tutelare i bisogni e cambiare realmente la società.
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