Perché è giusto il sì al vitalizio
I diritti valgono anche per i politici, ripristinata la pensione a Formigoni
In attesa che ne vengano pubblicate le motivazioni, la decisione con cui l’altro ieri la Commissione contenziosa del Senato ha accolto il ricorso presentato dall’ex senatore Formigoni contro la revoca della sua pensione si presta già ad alcune considerazioni, non foss’altro per le prevedibili, ma non per questo meno scomposte, reazioni che essa ha suscitato nei pentastellati ai quali, stante il periodo di profonda crisi d’identità che stanno attraversando, non sarà parso vero poter rispolverare i vecchi cavalli di battaglia contro la casta nel tentativo di poter così recuperare un po’ di quell’antiparlamentarismo su cui hanno costruito le loro fortune elettorali.
Inutilmente però in tali dichiarazioni, scartando le solite invettive e gli emoticon di disgusto, si troverebbe affiorare un barlume di argomentazione per confutare quelle che già sembra l’argomento principale su cui la decisione dell’organo giurisdizionale interno del Senato si basa (composto – è bene ricordare – da tre senatori e due tecnici), e cioè la natura pensionistica del trattamento che i parlamentari ricevono a fine mandato. Tale principio era stato affermato nel 2019 dalla Cassazione, per di più in sede di sezioni unite civili, allorquando – nel dichiarare la competenza degli organi camerali interni, anziché del giudice civile sulle questioni riguardanti tali trattamenti differiti – aveva affermato per l’appunto che i cosiddetti vitalizi altro non erano che le pensioni dei parlamentari maturate a seguito dei contributi versati.
I vitalizi, dunque, degli ex parlamentari non sono frutto di una graziosa concessione che lo Stato magnanimamente concede a una masnada di privilegiati finché ritenuti degni e meritevoli di riceverli, e che quindi le Camere possono revocare a mo’ di sanzione accessoria in caso di reati commessi, ma costituiscono un trattamento economico equiparabile a quello pensionistico basato sui contributi versati, come tale da corrispondere obbligatoriamente.
Se così è, i parlamentari, come non hanno diritto ad avere in materia un trattamento privilegiato rispetto agli altri cittadini, nemmeno devono essere penalizzati, subendo ciò che per loro non è previsto. Ebbene, in base a quanto previsto dalla legge, inclusa – per ironia della sorte, quella sul reddito di cittadinanza approvata entusiasticamente dagli stessi pentastellati – il diritto alla pensione per i condannati non può essere sospeso se non in caso di evasione o latitanza.
Del resto, se si riuscisse anche solo per un attimo a mettere da parte lo spirito di prevenzione, se non talora l’odio, verso i parlamentari, forse si comprenderebbe la profonda ingiustizia che subirebbe chi, chiamato a scontare una condanna in via definitiva per i gravi reati commessi, dovrebbe per questo motivo vedersi revocata la pensione, nonostante vi abbia maturato il diritto grazie alle somme versati. Se non è così previsto per chi, al limite, è stato condannato all’ergastolo, non si comprende davvero perché lo dovrebbe essere per chi ha subito una condanna meno pesante. O forse si vuole sostenere che i parlamentari, proprio in quanto tali, meritano un trattamento peggiore rispetto agli altri cittadini?
Era esattamente questo il principio delle due delibere del 2015 di Camera e Senato che prevedeva la cessazione dei trattamenti previdenziali per i parlamentari condannati in via definitiva per gravi reati; principio poi contraddetto nel 2019 dalla Cassazione e ora superato dalla delibera della Commissione contenziosa. Invero un simile tentativo di penalizzare i parlamentari rispetto agli altri cittadini era stato condotto quando gli Uffici di presidenza delle due Camere nel 2018 decisero di ricalcolare i trattamenti pensionistici dei parlamentari applicando retroattivamente il metodo contributivo, anziché retributivo. Una decisione che, se fosse stata applicata ai comuni cittadini, avrebbe portato alle barricate in piazza, ma che è stata propagandata come accettabile perché diretta a punire i parlamentari. Ebbene, non solo la portata di tali ricalcoli illegittimi è stata ridimensionata dapprima dal Consiglio giurisdizionale della Camera (22 aprile 2020) e poi dalla stessa Commissione contenziosa del Senato (25 giugno 2020), ma le due delibere delle Camere hanno – contro le intenzioni dei loro proponenti (pentastellati inclusi) – paradossalmente finito per assimilare ancor di più le pensioni a quelle degli altri cittadini, ponendo così le premesse per la decisione dell’altro ieri.
Benché si tratti di una decisione sul singolo caso dell’ex sen. Formigoni, è evidente che l’interpretazione delle norme vigenti su cui essa si basa non potrà non applicarsi anche ad altri casi simili, primo fra tutti quello – che questo giornale ha coraggiosamente sollevato andando in direzione ostinata e contraria al vento dell’antiparlamentarismo – dell’ex sen. Del Turco, per il quale – a tacer di ogni altra considerazione umanitaria – è già fortemente discutibile che ricorrano i presupposti perché si possa applicare la revoca del trattamento pensionistico, come ha efficacemente dimostrato Giuliano Cazzola su queste colonne lo scorso 8 aprile. La speranza è che il cambio di clima politico porti con sé anche ad aprire gli occhi su quanto siano effimere e demagogiche le battaglie contro i pretesi odiosi privilegi dei parlamentari. Perché di veramente odioso in questa vicenda c’è solo il pretendere da essi quanto non si vorrebbe applicato a sé.
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