I dubbi dell’Africa sulla Corte Penale Internazionale: è un’istituzione imperialista nelle mani dell’Occidente?

Il mandato di arresto emesso dalla Corte Penale Internazionale nei confronti del primo ministro israeliano Netanyahu e del suo ex ministro della Difesa, Gallant, ha riportato alla ribalta il dibattito – mai del tutto sopito – tra i favorevoli e i contrari alla giurisdizione criminale della Corte dell’Aja.

Tra i leader internazionali che sono stati spesso critici nei confronti della CPI molti sono africani, specialmente da quando nel 2017 la stessa Unione africana – con una risoluzione non vincolante – invitò tutti i suoi paesi membri a ritirarsi dalla giurisdizione di quel tribunale. Anche se dopo tale data (nonostante varie minacce di ritiro) solo il Burundi revocò la sua membership, un’opinione diffusa in ambito africano è che la Corte Penale Internazionale sia uno strumento di stampo neo-coloniale nelle mani dell’Occidente, rivolto specialmente contro l’Africa.

Quando la CPI fu creata con lo Statuto di Roma del 1998, i paesi africani furono in realtà tra i suoi maggiori sostenitori. Ben 34 Stati del Continente firmarono il trattato istitutivo: all’indomani del terribile genocidio in Rwanda del 1994, l’istituzione di un Tribunale di ultima istanza che giudicasse gli individui responsabili di crimini di guerra e contro l’umanità rivestiva un notevole valore simbolico ed emotivo. Fin quando la CPI indagò e accusò personaggi di medio calibro o ex generali di eserciti africani ribelli, come ad esempio i miliziani congolesi Bosco Ntaganda o Germain Katanga (accusati di atrocità nel nord del Kivu) oppure il leader della formazione di opposizione ugandese Lord’s Resistance Army, Joseph Kony, le autorità africane più influenti continuarono a ritenere la Corte un’istituzione utile e meritevole di appoggio.

Quando però il Tribunale emise mandati di arresto su alcuni capi di Stato al potere – come nel caso dell’ex presidente sudanese Bashir, di quello kenyano Uhuru Kenyatta (insieme al suo vice del tempo, William Ruto, oggi presidente a Nairobi) e dell’ex capo di Stato ivoriano Laurent Gbagbo – l’umore continentale cambiò in modo repentino. Cominciò infatti a nutrirsi il sospetto che la Corte dell’Aja – con il pretesto dei diritti umani violati – intendesse intervenire a gamba tesa sulle situazioni politiche africane per sbarazzarsi di alcune personalità scomode dal punto di vista dei paesi occidentali.

L’impressione che la CPI tenda ad accusare in modo prevalente personalità africane non è del tutto priva di fondamento: ad esempio tra i 67 procedimenti finora istituiti dalla Corte, quasi i due terzi hanno riguardato cittadini (talora ex presidenti) della Repubblica democratica del Congo, dell’Uganda, del Sudan, della Repubblica Centrafricana, del Kenya, della Libia, della Costa d’Avorio, del Mali, del Burundi. Ciò deriva in buona parte dal fatto che conflitti, guerre civili, insurrezioni armate e crimini collegati hanno luogo con una certa frequenza nel Continente africano; ma nella visione di molte autorità continentali questa non pare una spiegazione valida. Il Presidente ruandese Paul Kagame è uno dei più contrari alla Corte dell’Aja, da lui considerata sic et simpliciter come un’istituzione razzista e imperialista; anche il Sud Africa e l’Etiopia (quest’ultima neanche firmataria dell’Accordo di Roma) sono molto critici con la CPI, di cui intravedono un potenziale ruolo destabilizzatore nel Continente poiché essa può accusare governanti nell’esercizio del loro mandato, non tiene conto della tradizione africana più orientata ai meccanismi di riconciliazione e al perdono dei crimini secondo procedure tradizionali delle comunità .

A seguito di questo crescente malessere africano verso la International Criminal Court, nell’ambito dell’Unione africana si è ritenuto nel 2014 di lanciare il progetto di una Corte Criminale Africana, più in sintonia con le sensibilità continentali e soprattutto con sede in Africa e non in Olanda. Durante il vertice dell’U.A. del giugno 2014 in Guinea Equatoriale fu aperto alla firma il cosiddetto Protocollo di Malabo, dal nome della capitale guineana, che prevede tra l’altro l’istituzione di una Sezione criminale nell’ambito dell’esistente Corte Africana di Giustizia e dei Diritti dell’Uomo e dei Popoli, e garantisce l’immunità ai governanti africani durante l’esercizio del loro mandato. La Sezione criminale prenderebbe vita al deposito di 15 strumenti di ratifica da parte dei paesi africani. Ma finora di ratifiche se ne conta soltanto una, quella dell’Angola, depositata alla corte nel giugno di quest’anno, a 10 anni esatti dalla pubblicazione del Protocollo di Malabo. Una giustizia criminale continentale sembra quindi ancora molto lontana all’orizzonte.

L’impressione è che – soprattutto di questi tempi in cui il diritto internazionale non va molto di moda – la creazione di una Corte Criminale africana non sia fra le priorità dei leader del Continente, molti dei quali la ritengono una specie di trappola nei loro stessi confronti. Il mandato di arresto a Netanyahu e Gallant almeno priverà gli africani di un argomento da loro spesso adoperato per delegittimare il Tribunale dell’Aja: cioè che finora la Corte non aveva mai accusato di crimini di guerra e contro l’umanità alcun leader occidentale. Adesso l’ICC ne ha accusati due in una volta sola.