I gendarmi della memoria e la storia vietata delle Brigate Rosse

Ha appena accompagnato i due figli a scuola quando, sulla strada del ritorno, viene fermato da una pattuglia della Digos che lo scorta fino a casa. Lì ci sono già altri agenti – in tutto una decina – pronti a iniziare la perquisizione. Tutto viene messo sottosopra, perlustrato, ispezionato. Senza troppi riguardi per l’intimità di una famiglia, di cui fa parte anche una persona anziana. Vengono sequestrati computer, cellulari, apparati elettronici, materiali di ogni tipo, compresi quelli privati, foto, appunti, lettere. Finiscono lì anche i documenti che riguardano Sirio, un bambino che il verdetto medico aveva consegnato all’esistenza vegetativa e che invece oggi va a scuola combattendo ogni giorno per la vita e insegnando agli altri a guardare il mondo con gli occhi della disabilità. Nel tardo pomeriggio si conclude la perquisizione. Da allora la vicenda non si è conclusa. Come in una novella kafkiana si aggiungono, anzi, incriminazioni ulteriori.

Quel che importa davvero è l’accusato: Paolo Persichetti. Entrato nel 1986, all’età di 24 anni, in quel che restava della colonna romana delle Br, che nelle periferie poteva contare ancora su un certo appoggio, venne arrestato nel 1987. Persichetti ha scontato una lunga pena detentiva, anni e anni di carcere, dopo essere stato estradato dalla Francia. Ha avuto sempre la passione per la ricerca storica e il giornalismo. Ma sono mestieri che ha potuto esercitare quasi solo da outsider nella sua vita attuale votata all’impegno su tanti fronti. In Italia un ex brigatista non può accedere alla ricerca universitaria. Malgrado ciò Persichetti ha frequentato gli archivi, ha studiato nelle biblioteche, collaborando con Marco Clementi ed Elisa Santalena al primo volume di una storia delle Brigate rosse. Il secondo avrebbe dovuto uscire prima che la polizia sequestrasse tutto il materiale chi lui aveva messo da parte. L’interesse per quel periodo è più che giustificato. Tutti dovremmo essere interessati, perché si tratta della storia da cui proveniamo. All’estero è difficile spiegare quel che accade oggi in Italia, quel veto minaccioso che ostacola chiunque voglia parlare di un periodo rimosso e tabuizzato. Possibile che a decenni di distanza manchi ancora una ricostruzione storica complessiva e condivisa nei suoi tratti essenziali? Possibile che di quell’epoca si possa parlare solo aderendo a una versione in cui molti della mia generazione non riescono a riconoscersi?

Il sequestro dell’archivio personale di Paolo Persichetti è la triste conferma di tutto questo. È il sigillo impresso da un apparato statale che mostra il suo volto più tetro. Esiste in questo paese un organismo che si chiama Polizia di prevenzione, il cui ruolo potrebbe finire pericolosamente per sorvegliare l’indagine storica, se non addirittura per prevenirla, segnando i paletti oltre i quali non è lecito inoltrarsi. Una gendarmeria della memoria che asseconda una concezione poliziesca della storia narrata in bianco e nero – da una parte i buoni, dall’altra i cattivi, da una parte i probi, dall’altra i malvagi. Solo in tale contesto si può tentare di chiarire quel che sta capitando a Paolo Persichetti bersaglio, in questi mesi, di accuse iperboliche che sono andate sommandosi in un crescendo clamoroso che non può non suscitare interrogativi. Si passa dall’associazione sovversiva che, iniziata l’8 dicembre 2015, avrebbe dovuto condurre a chissà quali azioni di cui non c’è nessuna traccia, alla divulgazione di materiali segretati della commissione Moro, che a ben guardare erano destinati a essere pubblicati il 10 dicembre 2015, fino addirittura al favoreggiamento solo perché Persichetti aveva intervistato un ex brigatista, già condannato, per ricostruire i fatti storici. Dove sarebbe il reato?

Mentre si attende l’udienza di domani, in cui potrebbe essere finalmente accolta la richiesta di dissequestro avanzata da Francesco Romeo, difensore di Persichetti, ecco arrivare l’ultimo colpo di scena: il giudice per le indagini preliminari di Roma Valerio Savio ammette la richiesta di copiare il materiale sequestrato avanzata dal procuratore Eugenio Albamonte – una mossa che sembra già un giudizio. Un linguaggio burocratico quasi indecifrabile, ma allusivo quanto basta per insinuare sospetti, stigmatizzare e, in fondo, già condannare. Viene allora da pensare che l’archivio personale di Persichetti, messo insieme con anni di duro lavoro, sia stato sequestrato non a causa di un reato, bensì allo scopo di cercare un reato. Non è accettabile che in un paese democratico la magistratura segua piste complottistiche intervenendo nella ricerca storica. Né è accettabile che un ex brigatista, solo per essere tale, non abbia i diritti degli altri cittadini e venga considerato colpevole in ogni circostanza. Solo una democrazia debole e insicura cerca la rappresaglia andando a caccia di fantasmi.