Nel suo Diario, André Gide scrive il 2 settembre 1941 di un suo incontro con lo scrittore russo Ivan Bunin: «Per tutto il colloquio si è dimostrato delizioso, il suo bel viso, sebbene corrugato, resta nobile, il suo sguardo pieno di ardore… Mi sono sentito un po’ in imbarazzo per il fatto di conoscere, di lui, soltanto “Il signore di San Francisco” e “Il villaggio”…».

Chi sia Ivan Bunin non lo sanno in moltissimi, eppure ebbe il premio Nobel per la letteratura nel 1933. Solo da qualche anno meritorie case editrici lo stanno ripubblicando e fanno bene, perché Bunin fu davvero un grande scrittore, “discendente” dell’amatissimo Tolstoj e letterariamente vicino all’amico Anton Čechov che molto frequentò. Tra queste case editrici vi è Medhelan, che pubblica adesso La vita di Arsen’ev” con la storica traduzione di Ettore Lo Gatto e la bella introduzione di Andrea Tarabbia.

Bunin qui racconta, racconta, racconta frugando nella memoria a caccia del dettaglio minuto nell’enorme scenario della Russia, appunto, tolstojana. «E ancora ricordo molti grigi e rigidi giorni invernali, molti oscuri e sporchi disgeli, quando diventa particolarmente gravosa la vita nei distretti russi, quando tutte le facce si fanno noiose, malevole, e ogni cosa al mondo, al pari della propria esistenza, accascia per la sua inutilità…». Non c’è forse tutta la Russia in queste poche parole?

Bunin vagò tra la Russia meridionale, la Crimea, Mosca, poi la lunga peregrinazione all’estero, Parigi. Fu un uomo tormentato e non felice, piegato dalla Rivoluzione sovietica da cui egli fuggì: fu uno scrittore “controrivoluzionario” che vagheggiava un tempo ormai seppellito della Storia. In “Giorni maledetti” – pubblicato da Voland qualche tempo fa – si legge tutta la rabbia contro i bolscevichi impadronitisi della magnifica Odessa, con lo scrittore che urla la sua protesta destinata a restare inascoltata. E Bunin era così, un impasto di ira e di poesia, di durezza e dolcezza. Scrive Tarabbia nell’introduzione che il personaggio di Arsen’ev, come Bunin, «sa e sente di aver vissuto sul margine di un abisso e di essere stato testimone della scomparsa della vecchia nobiltà rurale ben prima che questa fosse liquidata come classe dalle politiche staliniane e su questa frustrazione che si trasforma a volte in nostalgia a volte in rabbia, a volte in rassegnazione, egli edifica il racconto di una giovinezza e di un mondo irrimediabilmente perduti».

Pertanto ne “La vita di Arsen’ev“, che è largamente autobiografico, si snodano storie, facce, paesaggi, odori, idee dell’antica “anima russa”, i crepuscoli di lande desolate e la luce di Char’kov; il tutto avvolto nella malinconia di tempi lontani perduti. La madre, l’amico, la morte, Dio: quanta Russia! Per chi ama la grande letteratura di quel paese, la maestosità di Tolstoj, la grazia di Turgenev, la poesia di Čechov, il consiglio è di procurarsi Ivan Bunin, grande scrittore dimenticato.