Migranti, il caso Alan Kurdi
I giudici scagionano Matteo Salvini ma è una sentenza che fa acqua
Il Tribunale dei ministri di Roma avrebbe “scagionato” l’ex ministro dell’Interno Matteo Salvini, archiviando le accuse di omissione di atti d’ufficio e abuso d’ufficio mosse nei suoi confronti per aver negato lo sbarco della Alan Kurdi (Ong Sea Eye) nell’aprile scorso. I giudici Maurizio Silvestri, Marcella Trovato e Chiara Gallo hanno affermato che la responsabilità di assegnare un porto sicuro alle navi con a bordo migranti soccorsi in mare spetta allo Stato di primo contatto, che «non può che identificarsi in quello della nave che ha provveduto al salvataggio». Nel caso della Sea Eye, battente bandiera tedesca, dunque, la nave avrebbe dovuto rivolgersi alla Germania per ricevere l’indicazione di un porto sicuro nel quale approdare. Per il Tribunale dei ministri di Roma, le disposizioni normative vigenti al riguardo sarebbero inadeguate, e la indicazione di un “porto di sbarco sicuro” resterebbe affidata a «una concreta e fattiva cooperazione tra gli Stati interessati che, fino a oggi, è di fatto scritta solo sulla carta». La propaganda sovranista ha subito salutato la decisione come una “vittoria” dell’ex ministro dell’Interno Salvini, che da quando si è insediato, a partire dal caso Aquarius nel giugno del 2018, ha sistematicamente eluso gli obblighi di soccorso in mare che incombono agli Stati, negando la tempestiva indicazione di un porto sicuro di sbarco. «Finalmente un po’ di buonsenso», ha commentato Salvini.
Una scelta di “buon senso” che produrrà altre tragedie come gli ultimi naufragi avvenuti nei pressi delle coste libiche e di Lampedusa. Una scelta “di buon senso” che permetterà di tenere lontane le navi di soccorso delle Ong, ma anche le navi commerciali, e i pescherecci di diversa nazionalità dalla zona di ricerca e salvataggio nella quale, nel Mediterraneo centrale, più frequentemente si verificano tragedie che in diversi casi rimangono senza testimoni. Una scelta di “buon senso” che contrasta con il diritto internazionale del mare, che nel nostro ordinamento interno può assumere una precisa efficacia cogente, per effetto dei richiami operati dalla Costituzione italiana agli articoli 10, 11 e 117. Un richiamo che il Tribunale dei Ministri di Roma ha evidentemente sottovalutato, ritenendo in sostanza che, nel caso di soccorsi in alto mare, tutto dipenda dagli accordi raggiunti tra gli Stati, e che nel tempo che occorre per raggiungere queste intese, le persone possono pure annegare, per i ritardi negli interventi di salvataggio, conseguenza della mancanza di mezzi disponibili, o essere condannate a vagare per settimane in acque internazionali.
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Le norme internazionali sulla ricerca e sul salvataggio (SAR) dei naufraghi in pericolo in alto mare sono contenute: nella Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare (Unclos) stipulata a Montego Bay nel 1982 e recepita dall’Italia dalla legge n. 689 del 1994, che sancisce che ogni Stato contraente deve obbligare i comandanti delle navi che battono la propria bandiera nazionale a prestare assistenza ai naufraghi trovati in mare ovvero a portarsi immediatamente in soccorso di persone in pericolo quando si abbia notizia del loro bisogno di aiuto. Si deve ricordare poi la Convenzione per la salvaguardia della vita umana in mare (Solas-Safety of Life at Sea, del 1974, ratificata dall’Italia con la legge n. 313 del 1980 e la Convenzione di Amburgo del 1979 resa esecutiva dall’Italia con la legge n. 147 del 1989 e alla quale è stata data attuazione con il D.P.R. n. 662 del 1994. Da tutte queste Convenzioni emerge un obbligo di salvataggio in mare della vita umana che, derivante da una consuetudine marittima risalente nel tempo, riguarda sia i comandanti delle navi che gli stessi Stati contraenti. Rientra nell’obbligo di ricerca e soccorso in mare l’individuazione di un porto sicuro dove sbarcare i naufraghi dopo le prime attività di soccorso.
Sulla base della Convenzione di Amburgo ogni Stato contraente deve assicurare l’organizzazione di un adeguato “servizio SAR” all’interno dell’area assegnata alla propria responsabilità, oltre a doversi far carico, a certe condizioni, quale primo soggetto investito della segnalazione, anche degli eventi che accadono al di fuori della propria area di responsabilità-prevede in capo all’Autorità nazionale che ha coordinato il soccorso anche il dovere accessorio di assicurare che lo sbarco dei naufraghi avvenga in un“luogo sicuro”. L’archiviazione del procedimento penale instaurato a carico di Salvini per la mancata indicazione di un porto sicuro di sbarco risente di una lettura del diritto internazionale del mare che si basa su una interpretazione aberrante dell’obbligo degli stati concernenti la indicazione di un porto di sbarco sicuro. Un obbligo che di fatto verrebbe cancellato, stando a una interpretazione che si presta, se si dovesse consentire il riconoscimento del principio della bandiera che batte la nave soccorritrice, a traversate pari alla metà della circumnavigazione del globo, e comunque a diverse settimane di navigazione, per sbarcare i naufraghi (si pensi alle numerose navi commerciali che battono bandiera panamense). A meno di ritenere che i giudici romani abbiano voluto adottare una decisione ad navem, nei confronti delle navi private delle Organizzazioni non governative, esattamente come, prima e dopo l’entrata in vigore del decreto sicurezza bis, erano ad navem le misure interdittive dell’ingresso nelle acque territoriali adottate dal ministro dell’Interno contro le Ong e soltanto contro le navi umanitarie.
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