I medici in trincea dell’ospedale di Codogno: “Noi in prima linea, le accuse di Conte fanno male”

A sign attached on the indication for Emergency of the hospital of Codogno, near Lodi in Northern Italy, advises that access is not allowed Friday, Feb. 21,2020. Health officials reported the country's first cases of contagion of COVID-19 in people who had not been in China. The hospital in Codogno is one of the hospitals - along with specialized Sacco Hospital in Milan - which is hosting the infected persons and the people that were in contact with them and are being isolated. (AP Photo/Luca Bruno)

Nella zona rossa a Codogno la situazione resta drammatica. Il paese è chiuso, mascherine e disinfettante sono impossibili da trovare e i supermercati sono rimasti vuoti. Il pronto soccorso è chiuso per arginare i casi di coronavirus che lo affollano, ma intanto i medici restano in trincea, in prima linea.

Come ha fatto il dottor Giorgio Scanzi, 65 anni, primario di Medicina all’ospedale di Codogno che doveva andare in pensione il prossimo 29 febbraio e invece ha deciso che il riposo poteva attendere. Era in ferie ma è tornato subito in corsia. Inizialmente doveva rientrare per un solo giorno. Ma da giovedì sera non ha più lasciato il reparto, rischiando in prima persona, al fianco dei suoi colleghi, decimati dal contagio e stremati da turni massacranti, con brevi pause solo per riposare.

“Macché eroe – dice con la voce rauca per lo stress e la stanchezza – mi sono comportato come ogni persona civile deve fare. E poi, il mio lavoro è proprio questo, stare al servizio dei malati”. I medici non hanno ben accettato le parole del premier Conte che nei giorni scorsi li ha accusati di non aver fatto abbastanza. “Focolaio causato dagli errori dell’ospedale”, aveva detto.

“Abbiamo fatto il nostro dovere e abbiamo la coscienza a posto. Dal primo istante dell’emergenza non abbiamo lasciato i nostri ammalati nemmeno per un istante. Alcuni di noi, tra medici e infermieri, sono infetti e lottano adesso contro il morbo. Non siamo eroi e non pretendiamo gratitudine per il nostro lavoro: ma ascoltare dalle massime cariche dello Stato certe parole, che moralmente uccidono più del virus, fa male e ci umilia”.