Le vittime e i sopravvissuti al naufragio
I migranti morti a Cutro avevano diritto d’asilo: non farli partire è una condanna a morte

Non sappiamo quali fossero i progetti, le aspettative, i sogni, delle molte decine di bambini, donne e uomini che sono morti a poche centinaia di metri dall’arrivo sulle spiagge di Cutro. Sappiamo però da dove venivano e quindi da cosa fuggivano: quei morti provenivano, al pari dei sopravvissuti, dall’Afghanistan, dall’Iran, dalla Somalia, dal Pakistan, paesi lacerati da violenze, conflitti, regimi autoritari. Erano dunque rifugiati che avevano diritto all’asilo come previsto dalla Convenzione di Ginevra del 1951, dal diritto dell’Unione Europa e, va ricordato, dalla Costituzione italiana.
All’art. 10 terzo comma la nostra Carta riconosce l’asilo come un diritto fondamentale della persona che fugge da una situazione nella quale gli è impedito “l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana” stessa che funge da parametro di riferimento di tali violazioni. Qual è dunque, mi chiedo, il significato dell’invocazione della signora Meloni di “impedirne le partenze anche per evitare tragedie simili”? Significa che le persone dovevano restare nei loro Paesi per essere lapidati dai talebani, impiccati dagli integralisti islamici, arruolati nelle milizie delle tante guerre in corso? Mi auguro solo che la signora Meloni non intendesse questo, ma non ne sono affatto sicuro.
Il barcone era, come molti altri, partito dalla Turchia, un paese che è rapidamente diventato nell’ultimo decennio il primo paese al mondo per numero di rifugiati: 3,8 milioni (UNHCR, Global Trends 2022). Questo numero abnorme non è frutto solo della condizione geografica di un paese posto lungo le rotte di fuga dal Medio Oriente e dall’Asia centrale, ma deriva da precise scelte attuate dall’Unione Europea: da sette anni infatti la Turchia è stata scelta come privilegiato paese di confinamento di milioni di rifugiati che vi vengono ammassati a seguito di una dichiarazione a margine del Consiglio europeo del 18 marzo 2016 quando i capi di Stato o di governo dell’Unione europea e la Turchia hanno concordato una serie di misure dirette a fermare la cosiddetta migrazione irregolare in transito dalla Turchia verso l’Unione (ovvero bloccare i rifugiati, prima siriani, poi gli altri).
Non si trattò affatto, in senso giuridico, di un Accordo tra l’UE e la Turchia concluso secondo le procedure previste dall’articolo 218 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea (TFUE), come ha chiarito la Corte di Giustizia (causa T-257/16) ma da una semplice dichiarazione di intenti imputabile ai singoli capi di Stato e di governo degli Stati membri grazie alla quale sono state eluse tutte le procedure previste dal Trattato. Il prezzo concordato con la Turchia per tutto ciò è stato di 6 miliardi di euro da inviare in due tranche (2016-17 e 2018-19). Scegliere la Turchia come paese di confinamento dove bloccare i rifugiati (una strategia di esternalizzazione del diritto d’asilo che l’Unione Europea persegue con ottusa tenacia da anni) è stata una scelta scellerata che ritengo abbia violato il divieto di non respingimento sancito all’art. 33 della Convenzione di Ginevra; la Turchia infatti ha ratificato la Convenzione e il suo Protocollo del 1967, ma ha mantenuto una limitazione geografica per cui lo status di protezione è riconosciuto solo a chi proviene da un Paese membro del Consiglio d’Europa, mentre chi proviene da un paese non europeo, come accade per tutti i rifugiati presenti nel paese, può solo temporaneamente risiedere in Turchia e accedere a diritti molto limitati.
L’Unione aveva allora promesso dei reinsediamenti dalla Turchia verso l’Europa ma si trattava di una finzione: essi non ci sono stati (secondo i dati della Commissione UE nel 2021 solo circa 22.500 persone bisognose di protezione internazionale sono state reinsediate in Stati membri dell’UE da paesi extra UE). Così la Turchia è diventata un maxi deposito o un’immensa trappola per milioni di persone che non possono tornare nei loro paesi di origine, ma neppure possono rimanere in Turchia perché non vi hanno né diritto d’asilo, né possibilità di ricostruirsi una vita in quanto nessun programma socio-economico può realisticamente porsi l’obiettivo di trovare un inserimento a un numero così abnorme di persone. I rifugiati intrappolati in Turchia (al pari di quelli confinati in altri Paesi) possono dunque solo andare avanti, ad ogni modo e a ogni costo, o via terra, attraverso la rotta balcanica, o via mare.
Di fronte a questo scenario nel quale le responsabilità italiane ed europee nell’aver scelto il confinamento di milioni di rifugiati sono enormi, l’unica cosa che il ministro dell’Interno Piantedosi sembra in grado di dire è che “ è fondamentale proseguire in ogni possibile iniziativa per fermare le partenze”; un’odiosa litania che pretende che le persone rimangano a vivere, o meglio a morire, dove si trovano, senza disturbare, invece di rischiare la vita che gli rimane nel tentativo estremo di trovare un luogo dove poter realmente vivere. La scelta di intraprendere un lunghissimo e pericoloso viaggio via mare dalla Turchia all’Italia invece di intraprendere un percorso via terra può sembrare anomala, ma è probabilmente almeno in parte una conseguenza del tentativo di evitare le violenze di polizia e i respingimenti illegali lungo la rotta balcanica, ovvero che accadono dentro l’Europa e persino alle frontiere esterne dell’Unione stessa. Si tratta di quei respingimenti illegali a catena la cui finalità è impedire ai rifugiati di presentare la domanda di asilo, e che talvolta vengono mascherati dal termine “riammissioni”, anche dall’Italia, pratica che viene magistralmente descritta nel film Trieste è bella di notte dei registi Andrea Segre, Stefano Collizzoli e Matteo Calore.
La tragedia che si è consumata sulle spiagge calabresi colpisce per le sue dimensioni e per il suo orrore, ma la strage nel mar Mediterraneo e lungo i confini terrestri europei è permanente anche se invisibile e rimossa dalla coscienza collettiva. Bisogna ridurre le partenze pericolose dalla Turchia, come dalla Libia e da altri Paesi terzi e dunque sottrarre merce ai trafficanti il cui mercato oggi gode di ottima prosperità grazie alle scelte dell’Europa; per raggiungere l’obiettivo di ridurre le partenze pericolose e contrastare il traffico internazionale di essere umani in conformità con il Protocollo di Palermo del dicembre 2000, che impone di tutelare le vittime, bisogna innanzitutto tornare a rispettare quel diritto internazionale ed europeo in materia di asilo che è oggi è stato stracciato. Significa dunque cessare le politiche di esternalizzazione delle frontiere in paesi terzi e porre fine ai respingimenti illegali alle frontiere europee, sia marittime che terrestri, poiché nessuno pagherà mai un trafficante se può esercitare realmente il suo diritto a chiedere protezione a una frontiera europea.
All’esatto contrario di ciò che dovrebbe fare, il 5 dicembre 2022 la Commissione Europea ha presentato un Piano d’azione dell’UE sui Balcani occidentali che ha come principali soluzioni “il rafforzamento della gestione delle frontiere” con conseguente fornitura di attrezzature per la sorveglianza a tutti i paesi dell’area e un rafforzamento dei “dispiegamenti congiunti di Frontex”. Nel medesimo documento nulla si dice della necessità di evitare quanto avvenuto con la Turchia, ovvero che anche i paesi balcanici extra UE, diventino, come già in parte sono, paesi di confinamento dei rifugiati che l’Europa non vuole ammettere sul suo territorio. Non una parola quindi viene spesa sulla necessità di supportare questi paesi per consolidarvi sistemi di asilo adeguati dentro un percorso di cambiamento sociale e culturale inevitabilmente lungo e che dovrebbe prevedere come sua parte fondamentale la realizzazione di programmi di ingresso protetto verso i paesi UE con quote vincolanti.
Una strategia analoga va attuata per affrontare l’immenso problema che abbiamo creato in Turchia, dando dunque vita a un programma reale di ingressi protetti pianificati verso la UE. Uso volutamente l’espressione “ingressi protetti” perché non intendo fare riferimento più solo ai tradizionali programmi di reinsediamento che vanno superati ma a un complesso di riforme legislative o mai intraprese o morte sul nascere di cui l’Unione ha piena competenza ai sensi dell’art. 78 del TFUE che abbiano lo scopo di avvicinare la protezione ai rifugiati in maggior pericolo che ancora si trovino in paesi terzi: che si tratti di programmi di evacuazione urgente per motivi umanitari o di rilascio di visti individuali di ingresso per accedere al diritto d’asilo nella UE, vanno previsti criteri equi e procedure trasparenti che tengano comunque conto dei legami significativi che molti rifugiati possono avere con paesi dell’Unione.
A chi obietta che si tratta di numeri enormi rispondo che è vero ma non abbiamo altra scelta che farlo, rimediando agli errori gravissimi fatti finora. Accettare che sul territorio dell’Unione europea entrino, anche in modo protetto, un numero di rifugiati ben maggiore di quelli che ci sono finora è accettare la realtà di un contesto internazionale nel quale il numero delle persone in fuga è in costante e forte aumento da almeno un decennio. Ciò che possiamo fare non è dunque impedire ciò che non può essere impedito ma gestire, almeno in parte, gli ingressi. Avendo la consapevolezza che finora abbiamo solo negato la più grande questione politica del nostro tempo.
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