Make-believe è un’efficace espressione inglese che fotografa alla perfezione lo stato attuale della giustizia penale in Italia. Non esiste una parola corrispondente precisa in italiano, ma traducendo con ‘fare finta’ si rende bene l’idea. Come ben sanno attori e comprimari (avvocati, ma soprattutto imputati e vittime) che affollano quotidianamente i Tribunali, da anni va in scena lo spettacolo ormai rodato della finzione. E i segnali provenienti da differenti contesti non sono incoraggianti, al contrario inclinano al pessimismo. E allora proviamo a mettere ordine, quanto meno per dismettere quel velo di ipocrisia e retorica che peggiora la situazione.

Cominciando dalla definizione. Ora, la finzione ha un doppio volto e ciascuno di noi può scorgervi quello preferito. Nel linguaggio comune, la fictio viene convenzionalmente associata all’idea di menzogna, di inganno; ma nella versione nobile e più sofisticata assume contorni quasi positivi. Infatti, per i filosofi del finzionalismo la finzione svolge un ruolo fondamentale nell’individuazione della realtà, sino a costituirne una forma di manifestazione. Non resta che applicare il principio nella prassi. Entrando in un’aula di Tribunale qualsiasi in un giorno qualsiasi, l’incauto osservatore si troverà di fronte un ruolo di udienza particolarmente carico, anche di 30-40 processi. Una concezione meccanica della giustizia, che si muove per numeri e statistiche. Ma dietro l’assurdità delle cifre compaiono con prepotenza le persone e le loro storie, in un tessuto di sofferenze che coinvolge indifferentemente autore e vittima del reato. E dove lo sbocco finale inevitabilmente deluderà una parte. Ma la quantità non è l’unico problema, forse neppure quello maggiormente rilevante. Intanto è da considerare il peso. In senso fisico e virtuale.

Ogni fascicolo è composto da molte, troppe pagine, spesso da atti inutili. Un peso che si trasferisce sulle spalle del giudice, sotto forma di zavorra, che dovrà decidere. E per leggere (tutto?) occorre tempo e per comprendere e valutare ciò che si legge ne occorre di più. Peraltro, a ogni stazione della via crucis (le diverse fasi e i vari gradi del giudizio) il peso aumenta. Ora, bisogna compiere un ulteriore sforzo e dalla immaginazione calarsi nella realtà. Il nostro processo penale è (o almeno dovrebbe essere) imperniato sul modello accusatorio. In parole semplici, significa che la prova si forma nel contraddittorio tra le parti dinanzi a un giudice terzo, privilegiandosi oralità e celerità. Ma se il dibattimento si celebra a distanza di anni dai fatti, l’attendibilità dei testimoni è inevitabilmente compromessa e i ‘non ricordo’ vengono costantemente suppliti dalle precedenti dichiarazioni scritte. La finzione si autolegittima. Ma il giudice, dopo l’esame di quel teste, non si ritira in camera di consiglio; semplicemente, rinvia a una prossima udienza; che si terrà a distanza di mesi, o addirittura di un anno.

Con l’inevitabile conseguenza che il suo giudizio si fonderà sulla trascrizione fredda nei verbali e non nelle ‘sensazioni’ raccolte in presenza. La ciliegina sulla torta è che sarà molto probabile che il giudice (monocratico o collegiale) che emetterà la sentenza non sarà neppure colui che ha partecipato alle precedenti udienze. L’immutabilità del decisore, un principio di civiltà ancor prima che di diritto, è stata infatti sacrificata sull’altare del pragmatismo nell’orientamento giurisprudenziale attuale, ammettendosi in buona sostanza la deroga, sulla base del consenso delle parti e con qualche garanzia formale e non sostanziale. Di nuovo la teoria della finzione. Se si prova a trasferire questo desolante affresco nei processi di criminalità organizzata o con una molteplicità di imputati, o dalle contestazioni tecniche, il modello (concreto) che viene fuori è francamente impressionante. Eppure, è ciò che quotidianamente si avvera in Italia.

Con l’aggravante che le indagini replicano il sistema della pesca a strascico: prendere ogni carta possibile per la selezione futura. ‘Fare finta’ diventa dunque una necessità: il carico di lavoro per essere smaltito vale bene un sotterfugio. La finzione della conoscenza e dello studio si accompagna però sul versante psicologico all’alibi del principio di affidamento, noto soprattutto nel lavoro di équipe. Confidare cioè nella correttezza e diligenza professionale di terzi. Che si traduce nel processo penale nel neutralizzare il senso di colpa auspicando che qualcun altro nella cinghia di trasmissione del processo avrà tempo (e voglia) di leggere e studiare. Make-believe, per l’appunto.