I ragazzi del Sud, dalle baby gang di Napoli ai profughi di Idlib

Mentre il mondo dei sani e dei giusti è impegnato a lapidare il coronavirus, a Idlib il popolo dei bimbi è in marcia per sfuggire alla morte, a Napoli l’esercito dei bambini si fa la guerra. Forse tutto il popolo del Sud, di quello nostro e del Sud degli altri, ha sbagliato a partire, continua a sbagliare: generazioni per cui il mondo era a una distanza notevole, lunga quanto le molte ore necessarie per raggiungere Milano e puzzolente come l’umanità in travaglio la polvere dei freni e la nafta di un treno colmo di vita in cerca di futuro.

Si partiva di sera e ci si svegliava intirizziti dal freddo d’inverno o soffocati dal caldo della bella stagione. Il mondo era distante per i ragazzi passati, spiato in qualche varietà o nelle sequenze di uno sceneggiato trasmessi da una televisione senza colori. Era un pianeta difficile da raggiungere, mitizzato dai racconti di chi c’era già stato e se ne tornava indietro su una macchina nuova. Sapeva di buono, di speranza e lo si sognava a occhi aperti. Raggiungerlo, per i più, significava agguantare una laurea o un lavoro sicuro, cose sulle quali si costruiva un progetto che prometteva di essere per sempre; per alcuni voleva dire soldi veloci, una scalata sociale a prescindere da regole morali e legali. Poi, pian piano il mondo si è mosso, a quelli che sono cresciuti dopo gli è arrivato a tiro di schioppo. Oggi il mondo i ragazzi ce l’hanno davanti agli occhi, lo vedono a colori in televisione, col mouse se lo girano in un attimo in lungo e in largo.

La terra la guardano da ogni angolazione e il pianeta non gli riserva più sorprese. Ce l’hanno in casa il mondo e non lo sognano più, non corrono dietro alle sue promesse. I ragazzi del sud hanno certezze che dicono che le speranze sono finite e anche se per arrivare a Roma o oltre ci metti meno tempo, le lauree servono a poco e i posti di lavoro lasciano niente in tasca e fanno svanire il domani. Sono finiti i sogni e i progetti non si possono più fare. Precario, provvisorio è il vocabolo che si sentono dire se avanzano pretese. Anche per gli uccelli da preda il mondo è diverso, lo sanno già che pallottole e manette arriveranno in fretta a spezzare vite giovanissime, e le remore anziché crescere svaniscono nella desolazione di una botta di vita, che è meglio il fuoco di un lampo che la tenue luce di una brace. I bambini del Sud sono già morti, prima dei loro coetanei di Napoli che muoiono ora, si sono massacrati sulla strada per Milano, per un Occidente qualunque: eppure erano passati per le piazze, per i circoli anarchici, per le camere del lavoro. Avevano dentro la forza enorme della ribellione, venivano da famiglie povere in cui non c’era né pane né mafia. Perché la loro rabbia non smuovesse lo stagno di una società immobile bisognava metterli sulla strada dell’autodistruzione.

Le mafie sono state l’insegnante migliore, mortale. Molti dei bambini di una Napoli passata, che mordevano la polvere delle strade di quartieri tristemente noti, erano passati dagli oratori, dai centri sociali, hanno assaggiato i rudimenti della rivoluzione, prima di mangiare pane e camorra. Adesso sono in troppi per mandarli a morire tutti quanti fuori. Una camorra stracciona gli insegna a macellarsi in casa. I resti se li prende lo Stato a tenere nutrita la schiera dei morti al 41bis. I bimbi del sud si scannano perché il popolo dei furbi gli costruisce autostrade che portano al mattatoio, e i giusti si sentano sempre più giusti. E uno Stato e dei buoni veri, sotto Roma non sono mai scesi a costruire strade diverse.

Mentre i puri di condotta scagliano sassi ai mostri caduti, a Napoli dei bambini cattivi si sfregiano a vicenda con un numero esorbitante di pallottole, a dimostrazione che sono piccoli anche riguardo alla perizia balistica. Lo fanno perché l’unica certezza che hanno è quella di essersi infilati in un mondo a parte, che con quello normale si incontrerà solo per un funerale, un dibattito televisivo, una pagina di giornale o un film di genere.