A due giorni dalle elezioni europee, e dunque quasi alla fine di una noiosa e spesso sguaiata campagna elettorale, culminata ieri nel doppio spot albanese di Giorgia Meloni e di Riccardo Magi, concediamoci un momento di pausa e di riflessione. Tutti parlano di riforme e di riformismo. Ma il significato di queste parole non è chiaro. Non solo in Italia. Nigel Farage, l’uomo della Brexit, ha fondato un partito che si chiama Reform Party, senza preoccuparsi di rubare il nome al famoso Reform Club, tempio della tradizione liberale e progressista inglese, che a sua volta richiama nel nome lo storico Reform Act, la legge elettorale che nel 1832 aveva dato inizio al processo che, attraverso vari passaggi, avrebbe infine portato al suffragio universale. Con ciò Farage comunica un fatto che dovrebbe ormai essere acclarato: il riformismo non è sempre progressista, può essere conservatore e anche populista.

Un riformismo conservatore

In altre parole, riformista è, per riprendere il ragionamento di Michael Walzer a proposito del liberalismo, un aggettivo: ci può essere un riformismo conservatore così come un riformismo progressista. Nessuno può negare, per esempio, che l’azione politica di Ronald Reagan, che era indubbiamente un conservatore, sia stata profondamente riformista, avendo cambiato con successo i connotati del sistema economico americano e non solo. Tuttavia, è più frequente associare il riformismo ai movimenti progressisti, ritenendo che siano questi a battersi per riformare il sistema esistente. Ma solo da poco tempo. In realtà, riformismo è stato a lungo una parolaccia, e riformista un insulto. Nel Partito socialista italiano (parliamo del primo dopoguerra) il conflitto tra i due gruppi – due vere e proprie fazioni – fu durissimo, fino all’espulsione dei riformisti.

L’antica tradizione

Tra i quali c’era un padre nobile come Turati, che aveva cercato di allearsi con i liberali di Giolitti per fermare l’avanzata del fascismo. Turati, in quanto riformista, era considerato un traditore della classe operaia. Siamo nel 1922. Ma ancora negli anni Novanta, nella furiosa e appassionata discussione sulla fine del Pci e la fondazione di un nuovo partito, la parola riformista appariva sospetta, e si preferiva dire riformatore, o parlare di riformismo forte. Contava certamente il bisogno di segnare la distanza dai socialisti – loro sì, riformisti senza ormai remore – ma pesava anche un’antica tradizione, mai veramente abbandonata dal Partito comunista, neanche quello di Berlinguer.

Il riformismo sdoganato

Oggi forse possiamo dire che il riformismo è stato sdoganato: tutti vogliono dirsi riformisti. È pur vero che il nostro paese ha un estremo bisogno di riforme, in tutti i campi. Il problema però è: in che senso vanno le riforme? Nel senso di allargare l’eguaglianza e la libertà, oppure nel senso di migliorare l’efficienza, anche a scapito dell’eguaglianza? In questa forbice sta la difficoltà del momento attuale, e anche la sfida di queste elezioni europee. Dunque possiamo dire che il vero riformismo è quello che riesce a chiudere la forbice e a mettere insieme i due obiettivi.