La città è senza un turista, sono poche le camere di albergo occupata, da Capodichino partono in due o tre al giorno, gli agenti di viaggi manifestano in piazza, i negozi sono aperti fino a tardi, ma vuoti; la produzione va a rilento, scattano i primi licenziamenti e paradossalmente, dopo le mascherine, ora è difficile trovare anche i guanti di lattice. Sebbene il quadro sia questo, cioè nero, c’è qualcosa che rischia di farcelo apparire diverso, se non addirittura opposto. È la movida che illumina, anima e alcolizza le notti in città. La movida diventa così rassicurante e allarmante al tempo stesso. Tutti quei giovani accalcati davanti a bar, spinti dalla voglia centripeta di incontrarsi e di raccontarsi, allarmano perché rendono più probabile un colpo di coda dell’infezione virale. Ma paradossalmente rassicurano anche, perché risucchiano tutte le altre criticità, le sussumono, diventano una macchia densa e scura che balza agli occhi. Se il virus è impalpabile e silenzioso, loro si fanno notare e sentire: ridono, brindano, si sbracciano e parlano alzando i toni, perché anche tutti gli altri lo fanno.

Ne sa qualcosa chi abita dove il popolo della movida si affolla; chi da quarantenato si era ripreso il diritto alla quiete e ora non intende alienarlo nuovamente. Se il problema numero uno diventa la movida, poi, è più facile che si producano distorsioni del patto statuale, con i massimi decisori che pretendono di modellarci giuridicamente, e che ai panni istituzionali aggiungono quelli del tutto impropri degli educatori. Dei genitori che raccomandano di non esagerare con gli spritz e di non fare tardi la sera (a Torino il rientro è all’una di notte, a Napoli alle 23). Ma se a questo lo Stato arriva non è solo per evitare l’effetto “Milano-non-si ferma”, il catastrofico slogan anacronisticamente festaiolo che è costato caro a Zingaretti, a Sala e al Paese intero. È soprattutto perché contro il virus non si riesce a fare altro. Non si riescono a controllore i flussi pedonali o a contare gli accessi nelle piazze. Così come, nonostante le tante risorse impegnate, ancora non si è in grado di garantire un adeguato numero di analisi anticorpali e di tamponi.

Ma è anche per qualcosa che non ha a che fare direttamente con l’emergenza sanitaria, ma che ora riemerge come da un profondo culturale, specialmente al Sud. Stanno infatti tornando in superficie non solo una impetuosa nostalgia del pensiero meridiano, di un andamento lento e antimoderno dell’economia; non solo una sorta di sentimentalizzazione della natura, magari liberata “dall’accidente umano”, e dunque una rivalutazione del piccolo è bello, del borgo isolato e della campagna incontaminata; ma soprattutto comincia a farsi sentire una mentalità anti-città di cui già parlava più di mezzo secolo fa Jane Jacobs. Quella mentalità “che vede soltanto disordine nella vita delle strade urbane e che smania dalla voglia di cancellare questa vita per standardizzarla e suburbanizzarla”.

La movida è un problema, e nessuno può credere di liberalizzarla del tutto. Ma attenti a scoraggiarla oltre misura o a crocifiggerla, perché abbiamo già visto cosa sono le città senza turisti e possiamo più facilmente immaginare cosa diventerebbero senza neanche una febbrile vita notturna. La verità è che c’è solo un modo per evitare davvero i rischi della movida: moltiplicarla. Cioè diluirla in più quartieri. E dunque bisognerebbe allargare la città, arricchirla di nuovi luoghi e più occasioni di richiamo. Poi ci sono le regole generali da rispettare, e di quelle si occuperanno i vigili.