Il rapporto Draghi è stato discusso ovunque, ma alcuni dei suoi aspetti più rilevanti sono rimasti in ombra. Tre, in particolare, meritano attenzione, anche perché non sono solo centrali per il futuro dell’Europa, ma rivelano fragilità strutturali dell’Italia.
La politica industriale
Primo, la novità non è il debito comune, ma l’argomentazione dettagliata a favore di una politica industriale coerente rispetto alle tre transizioni in cui siamo immersi: tecnologica, energetica e geopolitica. Se sviluppare una vera e propria dottrina non è possibile per un’Unione che non è uno stato, si può identificare nella politica industriale delineata da Draghi quel “minimo sindacale” di strategia unitaria per preservare prosperità e sicurezza. Come a dire: oggi definire un “interesse nazionale” per l’UE, per quanto minimale, è questione esistenziale. Vale per l’Europa, ma vale anche per l’Italia, dove parlare di interesse nazionale è stato un tabù per decenni e dove l’assenza di una politica industriale strutturata e riconoscibile è da anni un grosso problema.
Il nesso riforme-risorse
Secondo punto: il nesso tra riforme e risorse. Per diverso tempo il dibattito europeo si è arenato sul debito comune, con i paesi nordici e quelli mediterranei a discutere su cosa dovesse avere priorità: responsabilità o solidarietà. Draghi, pur sostenendo una maggiore integrazione fiscale, offre l’assist per spostare l’attenzione su come le risorse già presenti possano essere più efficaci, attraverso riforme che non richiedono la modifica dei Trattati, ma un aggiornamento delle politiche pubbliche e una riduzione della frammentazione. L’importanza del nesso riforme-risorse emerge in vari ambiti: dalla politica di coesione, che va riallineata ai reali driver di crescita, a quella per l’innovazione e la ricerca, che pur stanziando risorse comparabili a quelle degli Stati Uniti, lo fa al livello sbagliato, quello nazionale anziché federale, come avviene Oltreoceano.
Il nesso riforme-risorse risuona fortemente nel nostro Paese, evidenziando la storica difficoltà nell’assorbire i fondi europei. Lo dimostra anche la spesa del PNRR, con solo il 26% delle risorse erogate a poco più di due anni dalla scadenza, gran parte delle quali sotto forma di crediti d’imposta. Se le cose non cambiano, non è da escludere che il governo italiano provi a chiedere un’estensione del piano; una mossa da evitare poiché confermerebbe i timori di quei Paesi – e non sono pochi – contrari a replicare l’esperimento di Next Generation EU. Alla luce del legame tra riforme e risorse, sarebbe anche necessario riflettere seriamente sulla convenienza di aver richiesto l’intera somma dei fondi del Recovery Plan, una scelta compiuta da pochissimi Stati.
Diagnosi non condivise
Terzo aspetto: il rapporto Draghi è logico, non ideologico. La parte iniziale, dedicata alla diagnosi, è tanto cruciale quanto le oltre 170 proposte che seguono. Spesso, infatti, le divergenze nascono proprio da diagnosi non condivise. Fornire ai governi un’analisi chiara di ciò che non va, significa che sarà più difficile per i leader europei dire: “non lo sapevamo”. Così, la descrizione dei ritardi e degli ostacoli che frenano l’UE offre l’opportunità di superare un altro annoso dibattito: quello tra più o meno Europa. La prospettiva viene ribaltata: il punto di partenza non è una convinzione ideologica su cosa sia auspicabile, ma una realistica constatazione della situazione attuale, misurata sugli obiettivi da raggiungere.
Inevitabile il confronto con l’Italia, dove c’è un urgente bisogno di formulare diagnosi condivise. Sebbene vi siano molti ambiti da considerare, ne evidenziamo quattro prioritari: salari, natalità, cura del territorio, e, infine, la distanza tra la Costituzione scritta e il funzionamento de facto della nostra democrazia, a partire dal rapporto tra esecutivo e legislativo. Il rapporto Draghi non solo offre una via per l’Europa, ma, letto dall’Italia, può essere visto come un buon promemoria: è ora di affrontare le nostre fragilità.