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I trent’anni di solitudine della rimessione del processo: l’istituto scomparso del garantismo che fu
La rimessione del processo, istituto che consente di celebrare il giudizio in una sede diversa da quella naturale quando quest’ultima sia inquinata da fattori in grado di turbarne lo svolgimento, è un istituto abrogato per desuetudine. Sono passati ormai trent’anni dall’ultimo caso (che si ricordi) in cui la Cassazione ha deciso il trasferimento di un processo per gravi situazioni locali. Si trattava di un’indagine per reati di corruzione che vedeva coinvolto, nella quasi totalità, il nucleo di polizia tributaria della Guardia di Finanza di Milano, i cui membri avevano operato, in qualità di organi di P.G., in diretta delega della locale Procura della Repubblica, rivestendo a un tempo la duplice posizione di organi investigatori nonché di imputati nell’ambito della stessa inchiesta. Una storica decisione, che rappresenta a tutti gli effetti un unicum nel panorama giurisprudenziale.
Poi la Cassazione si è costantemente attestata su interpretazioni estremamente restrittive delle disposizioni che regolano i presupposti per la translatio iudicii, con la conseguenza che, da un lato, per “grave situazione locale” si è inteso solo un fenomeno esterno alla dialettica processuale, riguardante l’ambiente territoriale nel quale il processo si svolge e connotato da tale abnormità e consistenza da non poter essere interpretato se non nel senso di un pericolo concreto per la non imparzialità del giudice (inteso come l’ufficio giudiziario della sede in cui si svolge il processo di merito) o di un pregiudizio alla libertà di determinazione delle persone che partecipano al processo medesimo e, dall’altro, che i “motivi di legittimo sospetto” possono configurarsi solo in presenza di questa grave situazione locale e come conseguenza di essa.
A nulla è servita anche la riforma del 2002 voluta da Silvio Berlusconi per reintrodurre il presupposto del legittimo sospetto, degradato a conseguenza di mere questioni di ordine pubblico. Negli anni successivi, la Cassazione ha escluso che costituisse motivo di legittimo sospetto l’accanimento del pubblico ministero nella persecuzione penale, i rapporti fra magistrati asseritamente incompatibili per le loro pregresse funzioni o per le relazioni familiari o amicali con amministratori del Comune in cui si erano svolti i fatti, la circostanza che la persona offesa fosse collaboratrice del pm, un comunicato dell’A.N.M. locale che stigmatizzava il comportamento processuale dell’imputato, il fatto che gli stessi magistrati fossero a loro volta imputati in vicende connesse. Insomma, nessuna anomalia, pur vistosa, è risultata tale da far sorgere il legittimo sospetto sull’imparzialità del giudice.
Non è andata meglio all’altro presupposto rappresentato dalle gravi situazioni locali perturbatrici, scartate anche in presenza di campagne di stampa continue, aspre e astiose o addirittura di manifestazioni di piazza. Secondo la Corte, il giudice è un soggetto imperturbabile per antonomasia, in grado di reggere la valenza eccezionale della pressione mediatica sul processo. Questa figura idealizzata è ritenuta impermeabile anche rispetto alle intemperanze tenute dal pubblico nel corso del dibattimento, senza distinzioni fra magistrati esperti o di prima nomina, posto che tutti si presumono perfettamente idonei a mantenere ferma l’imparzialità di giudizio.
Nella preconcetta chiusura verso lo sfortunato istituto di garanzia, la Cassazione si è spinta fino al paradosso di affermare che un pregiudizio diffuso a livello dell’intera magistratura sarebbe, proprio per la sua dimensione nazionale, inidoneo a determinare quella situazione locale eliminabile solo con la rimessione. Si trattava del caso di un comunicato adottato dalla Giunta esecutiva centrale dell’Associazione nazionale magistrati, relativo a una ben specifica vicenda giudiziaria. La Suprema Corte ha riconosciuto che le affermazioni dell’organismo in questione rappresentavano tutti i magistrati iscritti, ma proprio perché estese all’intero territorio nazionale, avrebbero reso inutile spostare il processo da una sede all’altra.
Lo stesso paralogismo è stato usato per tutti i processi mediatici che, secondo la Corte suprema, sarebbero stati seguiti dalla cronaca nazionale in ogni eventuale spostamento che, quindi, sarebbe risultato del tutto inutile. Nell’epoca della giustizia social-mediatica non c’è più spazio per una fisicità territoriale del processo. Forse bisogna rassegnarsi a celebrare la definitiva scomparsa di questo istituto dal sapore di un garantismo d’antan.
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