Sopra all’imponente portone di piazza Cairoli 6, a Roma, sventola la bandiera russa. La sede dell’ufficio culturale russo, distaccamento diplomatico dell’ambasciata di Mosca, sta al piano nobile del palazzo. Dietro alla bandiera, disposti su due piani, gli uffici dove per anni ha esercitato l’avvocato Giuseppe Conte, ora divisi tra Studio Alpa e Studio Di Donna. Due studi legali diversi, formalmente. Ma quando lo cerchiamo, scopriamo che c’è uno stesso numero di telefono per Guido Alpa e per Luca Di Donna, l’avvocato che starebbe effettuando per conto del presidente del Consiglio qualche telefonata di sondaggio, chiamiamolo così, con i senatori ancora indecisi, in quella terra di mezzo che per Conte può diventare Terra promessa. È da quelle stanze che si tirano le reti per la pesca miracolosa della fiducia a Palazzo Madama.
Abbiamo cercato Di Donna. La segretaria che risponde al telefono chiede per quale pratica stiamo chiamando: l’avvocato è sempre impegnato al telefono. Per l’appunto. Quando diciamo di essere giornalisti però ci liquida: “Scriva una mail”. Scriviamo, senza esito.
Hanno calato l’elmetto, nella trincea di piazza Cairoli. Impossibile parlare con il mentore di Conte, Alpa. Il giurista e dominus dello studio è stato a lungo a capo del Consiglio nazionale forense, la potente cabina di regìa dell’avvocatura italiana. Molte voci lo tirano in ballo ancora in questi giorni: il suo rapporto con il premier è sempre stato stretto. Già a bottega da Alpa, Conte sostenne nel 2002 un concorso a cattedre come ordinario per l’Università di Caserta, e nella commissione giudicante si ritrovò a dimostrare quanto appreso nello studio Alpa davanti al titolare del medesimo. Il coordinatore dell’Organismo congressuale forense, Giovanni Malinconico precisa il perimetro di gioco: «Potrebbero esserci stati movimenti, non lo escludo. Ma Alpa e Mascherin, va precisato, non rappresentano più i vertici dell’avvocatura. Chi oggi alza il telefono, lo fa a titolo personale».
«Quello che si legge sui giornali lascia senza parole», dice Michele Anzaldi. «In questo finale di partita ci sono già troppe ombre, a partire dalla inquietante vicenda dell’hackeraggio che avrebbe subìto il presidente del Consiglio sui canali social, circostanza che Facebook Italia ha smentito». Sul punto il deputato di Italia Viva ha presentato una interrogazione parlamentare. «Trovo anche molto inquietante leggere che vi sarebbero ambienti vicini ai vertici della Finanza dietro a qualche pressione. Sarebbe opportuno che sulla questione venisse convocato subito il Copasir». Le barbe finte sarebbero già in campo, a leggere in giro. Perfino il Prefetto Gennaro Vecchione, capo del Dis, sarebbe nella war room, secondo voci insistenti. Tra lui e Conte c’è più di una collaborazione istituzionale. Di sicuro c’è una grande amicizia anche personale, facilitata dalla consuetudine tra le consorti. E agli atti c’è la scivolosa frequentazione da parte del Generale della Link Campus, l’università vicina ai Cinque Stelle da cui provengono almeno due dei ministri di Conte. Lo fa notare chi punta sull’insistenza del premier a tenere stretta la delega ai servizi, delega che solo ieri Conte avrebbe deciso di destinare; non c’è ancora ufficialità, ma dovrebbe andare al segretario generale della Presidenza, Roberto Chieppa. La GdF smentisce tutto: «Il presunto coinvolgimento di generali della Finanza per allargare la maggioranza è privo di fondamento». Tutto infondato, tutto inesistente: ma i telefoni dei Senatori “conquistabili” squillano in continuazione. Le ombre si allungano, i misteri si confondono. Le profferte di posti di potere si sovrappongono. «Ricostruire il Paese? Saranno utili i compassi, per la sua ricostruzione», accenna malignamente Giorgia Meloni in aula, guardando Conte negli occhi.

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Ph.D. in Dottrine politiche, ha iniziato a scrivere per il Riformista nel 2003. Scrive di attualità e politica con interviste e inchieste.