Difficile che qualcuno di voi non abbia visto “La donna che visse due volte” (Vertigo) di Alfred Hitchcock, dato che si tratta di un enorme successo, uno dei capolavori della cinema-tografia mondiale. Più facile che la maggior parte di quelli che pure l’hanno visto non sappiano che è tratto dal romanzo omonimo di Pierre Boileau e Thomas Narcejeac, la grande coppia del noir francese che ebbe una buona notorietà a partire dagli anni Cinquanta.

Dopo “La donna che visse due volte“, storia di una “necrofilia”, come la definì Hitchcock che diresse magistralmente James Stewart e Kim Novak, “I diabolici” (altro romanzo adattato da Henri-George Clouzot per il film con Simone Signoret e Paul Meurisse) e “Le incantatrici”, adesso Adelphi manda in libreria “I volti della notte” (Les visages de l’ombre, 1953) per la bella traduzione di Federica Di Lella e Maria Laura Vanorio.

Questo è uno di quei romanzi che si prende in mano e non lo si lascia che alla fine, e non perché si vuole sapere chi è l’aggassino Non siamo in un giallo, siamo qui nel più classico dei noir: cioè in quel genere, per così dire “attiguo” al giallo classico, che ci conduce per mano nel “buio della mente“, come s’intitolò un famoso film di un altro maestro del cinema che s’intendeva di queste cose, Claude Chabrol, cioè nel labirinto dell’essere, nella incomprensibilità del reale (ammesso che reale sia). Qui non ci sono investigatori con l’impermeabile bianco, scazzottate, polizia, alibi, pistole. Siamo persino oltre “I diabolici”, dove l’investigatore c’era (nel film di Clouzot era il grande Charles Vanel) che deve scoprire un intrigo per l’appunto diabolico che pure origina sempre da una specie di follia.

No, qui si può dire che l’azione non ci sia. O meglio, l’azione è nel cervello. Per capirci, il protagonista de “I volti della notte” è un cieco – Richard Hermantier – o forse meglio si dovrebbe dire che la protagonista è la cecità, cioè la condizione di non vedere null’altro che le paranoie, le paure, le malattie, i sospetti: cose vere o false?

«Non era neanche una vera oscurità. Era il nulla. Un tempo, quando chiudeva gli occhi, quando si premeva i palmi delle mani sulle palpebre, vedeva tutto nero, un bel nero simile a un cielo profondo, in cui dopo un po’ cominciavano ad apparire soli rotanti, a delinearsi vie lattee, a esplodere girandole di stelle, e credeva che fosse così anche la notte degli occhi senza vita». Il labirinto che Hermantier percorre non è solo quello dei corridoi della villa in Vandea dove la moglie e gli altri (il fratello, il sottoposto, l’autista, la cameriera) lo hanno sostanzialmente recluso dopo l’incidente che gli ha causato la perdita della vista (proprio a lui, fabbricante e inventore di lampadine: la luce!) ma è soprattutto il labirinto del suo cervello che mai riposa nell’allestire permanentemente fobie e montante terrore.

Boileau e Narcejac sono maestri, riga dopo riga, ad arare piano piano il livello della tensione emotiva e ad accendere il contrasto tra una mente infuocata e la condizione placida dell’ambiente marino, degli odori di piante, della frescura estiva; e nel tratteggiare i personaggi enigmatici che circondano Hermantier, non si sa se subdoli o ingenui, piccole figurette abbozzate come quelle di Frangois Mauriac o Georges Simenon – perché non può non esserci, in spirito, Simenon: e dunque siamo pienamente dentro l’ottima letteratura francese del Novecento, quella che, come detto, ha entusiasmato i Truffaut e gli Chabrol – oltre che Hitchcock.

Hermantier potrebbe essere un personaggio simenoniano, dei romanzi di Simenon “non Maigret”, e soprattutto la costa della Vandea di Boileau e Narcejac può ricordare una certa Bretagna di Simenon, si ascolta a momenti il fragore costante dell’oceano così come lo sente Hermantier nel suo delirio senza luce: «Ora camminavano su un terreno più stabile. Il mare non faceva quasi rumore. Non si infrangeva come al solito, non dilagava sulla battigia con un fragore sordo, facendo tintinnare l’uno contro l’altro i ciottoli, formava soltanto delle ondine il cui tenue sciabordio contrastava con la sensazione di immensità. Hermantier si aspettava di sentire il mugghiare confuso dell’oceano, e invece ai suoi piedi non avvertiva altro che piccoli gorgoglii da sorgente. Si chinò, sentì l’acqua che gli scorreva fra le dita, tiepida, leggermente vischiosa, spumeggiante sulla sabbia come un vino frizzante in un bicchiere. L’assaggiò. Era insipida e amara. Quello almeno era indiscutibile».

Che bella prosa! Nella claustrofobia del protagonista, gradualmente giganteggia il vero personaggio del romanzo: il sospetto. Esattamente quello che tanto intrigava Hitchcock che, nel film omonimo, infilò una lucina nel famoso bicchiere di latte che Cary Grant porta a Joan Fontaine – e anche qui a un certo punto il protagonista rovescia apposta il caffè in cui teme esserci del veleno, proprio come fa Ingrid Bergman in Notorius, ancora di Sir Alfred. E dunque il povero Hermantier brancola letteralmente tra gli odori del tradimento tentando alla fine una sorta di fuga nella quale lucidità e follia si mescola-no nel buio della scena e nell’angoscia del dubbio e persino della morte. Ed è quasi miracoloso come una storia tutta interiore si stagli sulla pagina e nella nostra immaginazione, come se il lettore divenisse un piccolo Hermantier e ci assalga il bisogno di “vedere”. E infatti deve essere per questo che poche cose come il noir genuino sia ottimo per il grande cinema e, se è concessa una fantasia, per Hermantier, alto, grosso, inevitabilmente maldestro, sarebbe stato perfetto Jean Gabin o, oggi, Gérard Depardieu. Ed è un peccato che non ci sia stato un Clouzot o un Hitchcock a prendere in mano questo “I volti della notte” per il
grande schermo. Lasciando però a noi il piacere squisito di gustare questo piccolo romanzo di Boileau e Narcejac che è come un perla nera.

Mario Lavia

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