Dei “calanchi” di Cutro, quelle collinette colorate dal grano che somigliano tanto alle dune del deserto, era innamorato Pierpaolo Pasolini tanto da trasformarle laicamente nel “vangelo secondo Matteo”. A Cutro, ai tempi di Filippo II di Spagna, che voleva convertire ogni angolo di terra al cattolicesimo, nacque anche il primo campione di scacchi del nuovo mondo. A Cutro, nel secolo dell’antimafia sciasciana delle fanfare che sognava la transustanziazione dei pani e dei pesci nella mafia, ebbe la ventura di nascere pure Vincenzo Iaquinta, campione del mondo della nazionale di calcio nelle notti magiche di Berlino. Sempre in quei lidi, nella disgraziata Calabria, è nato il padre di Vincenzo, l’imprenditore Giuseppe Iaquinta, emigrato tanti anni fa con la famiglia in Emilia Romagna per cercare fortuna.

Può capitare, nella vita di un uomo, che il successo diventi malasorte, iattura. È sorte certa, nel XXI secolo, se hai visto la luce nel mezzogiorno d’Italia, nelle terre del male, dove abita Caino: il “peccato originale” di nascita ti accompagna nel corso della tua esistenza. Oggi il nome di Giuseppe Iaquinta compare prepotentemente nel processo Aemilia: 700 anni di carcere che il Tribunale e la Corte di Appello di Bologna hanno irrogato ai presunti sodali di una cosca di ndrangheta operante in Emilia Romagna legata ai “Grande Aracri” di Cutro. Mafioso, per i giudici di Bologna, sarebbe pure Iaquinta Senior, condannato in secondo grado, in nome dell’art. 416 bis del codice penale, a 13 anni di carcere.

Chiosa la Corte D’Appello che «Iaquinta Giuseppe è risultato essere un soggetto con un ruolo fondamentale per il sodalizio, rappresentando la figura dell’imprenditore di successo, oltre che padre di un calciatore famoso. Consapevolmente l’imputato si prestava al sodalizio consentendone l’infiltrazione nei settori economici e politici della zona in occasione di affari leciti o illeciti dell’associazione, talvolta anche avvantaggiandosene personalmente come si dirà oltre». In questa storia, calabrese ed emiliana, proprio “l’oltre” a cui fanno riferimento i togati fa davvero paura. Nessuna traccia del coinvolgimento di Iaquinta nelle grandi operazioni antimafia riportate dall’inchiesta – Grande, Drago, Edilpiovra ecc. – si rinviene negli atti del processo, né tantomeno nei grandi affari contestati: fallimento Rizzi, Sorbolo, Oppido. È allora lecito chiedere: perché è stato condannato Giuseppe Iaquinta? C’è stato un tempo in cui il “governo dell’oltre”, di ciò che va al di là dei fatti umani che possono anche esser fatti di reato, era monopolio delle religioni rivelate. Oggi, “l’oltre”, il “noumeno”, ciò che non è fenomeno, non si manifesta, che kantianamente è inconoscibile, diventa invece terreno del diritto penale della igienizzazione e sterilizzazione della società.

Accade allora che Giuseppe Iaquinta sia reo in quanto abbia “valutato” una operazione economica, ritenuta illecita, il cosiddetto “affare Milano”, senza alcun coinvolgimento o atto concreto: nei processi di mafia, in fondo, il “valutare”, è sempre sicuro indice di colpevolezza. Capita che Iaquinta sia mafioso perché parente del calabrese Antonio Muto, avendo preso parte al compleanno di quest’ultimo – una vendetta dello ius sanguinis e dello ius soli – o abbia avuto buoni rapporti con Alfonso Paolini, Pasquale Brescia, peraltro all’epoca dei fatti tutti incensurati, e in quattro occasioni, udite udite, abbia incontrato Nicolino Grande Aracri in iniziative evidentemente criminali: il matrimonio della figlia di quest’ultimo che conveniva a nozze con un nipote di Iaquinta, un pranzo a Porto Kaleo, la consegna di un malcapitato pesce, anch’esso forse indagato per mafia. I pranzi, le cene, i convivi, nel regno del panteismo mafioso, del “tutto è mafia”, fondano il “concorso esterno in associazione mafiosa”. La scena dei crimini di Iaquinta sono i ristoranti e il corpo del reato le portate consumate in socialità. Non si capirebbe altrimenti quale delitto sarebbe stato commesso nella cena del 26 ottobre 2011 presso il ristorante Antichi Sapori o in quella del 13 ottobre presso il ristorante Laghi di Tibbia o ancora, il 10 marzo 2012, quando Iaquinta cenò al New West Ranch!

Il prof. Vincenzo Maiello, che difende l’imputato in Cassazione, ha sostenuto instancabilmente che, a partire dalla sentenza Mannino, una condanna per 416 bis non può essere edificata su mere situazioni di status, ma occorre la fattiva partecipazione del soggetto a un sodalizio, un ruolo dinamico e funzionale. Parole al vento: nel regno dell’antimafia, si punisce quia peccatum e non quia prohibitum: non per quel che si fa, per quel che si è! È doveroso chiedere: quali benefici avrebbe apportato Giuseppe Iaquinta alla consorteria criminale? La verità è presto detta: la sua immagine, il suo status di imprenditore, di padre di un calciatore famoso, avrebbe rafforzato la mafia. È come affermare insomma che Frank Sinatra fosse mafioso perché fotografato, sorridente, accanto a Paul Gambino o Maradona andasse incarcerato per le notti brave a Napoli, incrociando talvolta mariuoli e mafiosi! The voice e El pibe de oro erano forse in concorso esterno con la mafia? Di cosa è colpevole Giuseppe Iaquinta? Del fatto che Nicolino Grande Alacri lo volle incontrare per scattare una foto con il figlio calciatore, per una maglietta? Del “fatto di reato” che i suoi conterranei lo chiamavano per chiedergli i biglietti per una partita? Forse perché Paolini era orgoglioso di aver giocato un tempo con Vincenzo Iaquinta, colui che inaugurò, con una rete, il mondiale vincente del 2006? Di che parliamo? Quali favori Giuseppe Iaquinta avrebbe ricevuto dalla mafia? Davvero si possono irrogare 13 anni di carcere perché, nell’estate del 2011, questi presunti sodali sarebbero intervenuti in suo favore per il furto di alcuni ombrelloni o il rimessaggio di una barca?

La lotta alla mafia è una cosa seria, terribilmente seria, il ricorso alla pena detentiva l’estrema ratio per difendere la sicurezza sociale. Per il resto, il carcere, una struttura mortifera, fuori dalla storia, va superato. Le fattispecie di reato non possono essere “sacchi dalle pareti elastiche” dentro i quali mettere tutto e il diritto penale non può occuparsi dell’ “oltre”, del regno delle infinite possibilità. Il processo a Iaquinta è un processo ai contatti, alle relazioni, ai natali, allo ius sanguinis e allo ius soli. Manca il fatto e l’eredità della colpa di Eschilo muta impietosamente: non è il figlio a pagare le colpe del padre ma il padre a pagare le “colpe” del figlio. La “colpa” di esser diventato un giocatore di successo e di aver trasferito la gloria alla propria famiglia, la “colpa” di esser nato a Cutro. In fondo, nella transustanziazione dei pani e dei pesci in mafia, la “mafia” – tutto è mafia – infine alza la coppa, diventa tristemente campione del mondo.

Antonio Coniglio, Sergio D’Elia

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