La Turchia si è svegliata il 28 febbraio, il giorno per lei più cupo del conflitto siriano, piangendo la morte di suoi 36 soldati a seguito di un pesante bombardamento aereo delle forze del regime di Assad sostenute dalla Russia, al culmine di una escalation che ha portato le tensioni con Mosca e Damasco a un livello senza precedenti.

A Idlib, provincia nordoccidentale della Siria, dal maggio 2019 si scontrano da una parte le forze di Assad sostenute dalla Russia e dall’altra le forze turche e i loro alleati ribelli sunniti. Negli ultimi giorni l’epicentro degli scontri è diventata la città strategica di Seraqib, a sudest di Idlib, crocevia delle autostrade M4 e M5 che rispettivamente collegano Latakia e Damasco ad Aleppo. In questa provincia siriana si sta consumando una tragedia annunciata.

I disaccordi tra Mosca e Ankara derivano principalmente da diverse interpretazioni dell’accordo di Sochi del 2018. Da quasi due anni, Mosca, pur sostenendo Bashar al-Assad, ha un accordo con la Turchia per la de-escalation nella provincia di Idlib. Le forze turche sono presenti in quest’area della Siria nordoccidentale con proprie truppe per costituire una zona cuscinetto delimitata dalla cosiddetta “linea di de-escalation” presidiata da 12 avamposti militari (ormai quasi tutti assediati) per tenere separate le forze ribelli da quelle del regime, secondo l’accordo di Sochi siglato da Turchia e Russia del 17 settembre 2018.

Per la Russia, l’accordo di Sochi avrebbe dovuto portare a una soluzione per Idlib. Il ruolo della Turchia sarebbe dovuto essere quello di demilitarizzare la regione procedendo al disarmo di tutti i gruppi ribelli suoi alleati e di combattere le milizie filo al-Qaida di Hayat Tahrir al-Sham (HTŞ) per permettere ad Assad di avanzare indisturbato. Ma la Turchia non ha fatto nulla di tutto ciò e la sua presenza militare è diventata dunque un ostacolo all’offensiva dell’esercito siriano.

Mosca sembra determinata in ogni caso a sostenere Damasco, lasciando Ankara davanti ad una scelta: se vuole avere un ruolo con la sua presenza in Siria deve disarmare i ribelli e riprendere il dialogo con Damasco. La Turchia, dal canto suo, sostiene che Mosca non sta osservando il secondo articolo dell’accordo di Sochi, che impegna la Russia al rispetto del cessate-il-fuoco obbligando Assad a sospendere la sua offensiva. Secondo la Russia, la presenza sul terreno di elementi jihadisti legittima l’offensiva delle forze del governo siriano, annullando il cessate il fuoco.

Insomma, tutti gli attori in campo hanno visioni diverse e i nodi stanno venendo al pettine. Le oltre 40 fazioni eterogenee che la Turchia ha riunito nella Siria nordoccidentale sotto la bandiera dell’Esercito nazionale siriano sono considerate da Mosca e Damasco organizzazioni dell’Islam radicale e dunque terroristiche.

A Idlib, vivono intrappolate tre milioni di persone, sottoposte alla tirannia di HTŞ e delle sue bande armate e nel terrore delle bombe siriane e russe. Non hanno alcuna via d’uscita dalla loro tragedia se non raggiungere l’Europa attraversando il confine turco. L’intervento militare per eliminare i gruppi del radicalismo islamico a Idlib sta causando un bagno di sangue, probabilmente anche peggiore di quello che si è consumato ad Aleppo nel 2016. E proprio al confine turco si sono ammassati oltre un milione di persone in fuga dai bombardamenti indiscriminati che hanno raso al suolo interi villaggi.

La Turchia ha aperto i propri confini ai profughi siriani, sia quelli con la Siria che quelli con l’Unione Europea. Una decisione con cui mira a esercitare pressione sull’Europa affinché la sostenga nella sua intenzione di costituire una zona cuscinetto in Siria lungo il suo confine per dare riparo ai profughi. File interminabili di rifugiati stanno attraversando il confine siriano di İdlib e di Afrin e sono giunti alle porte dell’Europa al confine con Grecia e Bulgaria e sulla costa dell’Egeo, pronti a salire su un gommone per approdare sulle isole greche davanti alle coste turche.