Il 15 agosto del 2021 ha rappresentato uno spartiacque fondamentale nella vita dell’Afghanistan. La caduta di Kabul in mano ai talebani, conseguenza del ritiro degli Stati Uniti e della coalizione occidentale ma anche dello scioglimento repentino e fragoroso dello Stato afghano di fronte agli “studenti coranici”, ha cambiato per sempre la vita di milioni di persone.
Il Paese dell’Asia centrale, obiettivo della guerra al terrore voluta dall’allora presidente Usa George W. Bush, si era rivelato ancora una volta per quello che la Storia l’ha sempre considerato: la tomba degli imperi. Come l’impero britannico e quello sovietico, ora a cadere tra gli altopiani afghani era l’impero americano.

Che lì, nel cuore dell’Asia, conduceva una logorante guerra ventennale contro il terrorismo islamico e che nel tempo si era trasformata in una continua emorragia di sangue, soldi, energie e che aveva confermato l’enorme difficoltà nel tentare non solo di sconfiggere le forze nemiche, ma anche nel costruire un nuovo Paese.

Washington aveva assunto un impegno a cui non aveva voluto rinunciare. Ma la stanchezza dell’elettorato statunitense e l’assenza di una chiara strategia per finire il conflitto avevano reso tutto estremamente complicato. Fu proprio da queste premesse che Donald Trump, facendo seguito alla promessa elettorale di porre fine alle “guerre infinite”, siglò con la leadership talebana il patto per cederle l’Afghanistan. La decisione dell’ex tycoon divenne a quel punto una scelta obbligata anche per Joe Biden che, arrivato alla Casa Bianca, mantenne fede al patto siglato con le milizie. Ma il presidente democratico lo fece con un ritiro che continua a essere una macchia forse indelebile della sua presidenza.

L’abbandono precipitoso del Paese, l’inadeguatezza dei piani di ritiro e della transizione, la disperazione di migliaia di collaboratori afghani lasciati nelle mani di chi li odiava smentirono tutte le promesse della politica Usa. Mentre un’intera generazione di donne e giovani videro sfumare, forse per sempre, il sogno di una vita più vicina ai valori occidentali e non chiusa nei meandri dell’intransigenza talebana. Tutti elementi che hanno reso quel 15 agosto di due anni fa uno degli episodi più drammatici della recente politica estera americana. Un evento che ha fatto percepire l’abbandono di un’intera comunità e che ha aperto o rafforzato certe dinamiche geopolitiche su cui vale la pena riflettere.
Avere lasciato milioni di afghani sotto un nuovo Emirato islamico ha lasciato un senso di smarrimento diventando un eccezionale strumento di propaganda contro la politica estera statunitense.

La fuga da Kabul si è trasformata in un precedente che rischia di tornare ciclicamente non appena le circostanze rendano necessario un altro cambiamento negli impegni Usa. E da questo precedente, l’America sa di potere emanciparsi solo con una nuova prova di credibilità. Il ritiro dall’Afghanistan rese poi evidenti alcuni cambiamenti strategici importanti tanto in quel preciso momento quanto nel futuro. L’unilateralismo della scelta degli Stati Uniti, a prescindere dal colore politico dell’amministrazione, ha manifestato la poca rilevanza dei dubbi e delle idee degli alleati europei, rischiando di creare un’ampia faglia tra le due sponde dell’Atlantico.

Molti osservatori lanciarono l’allarme sul fatto che il blocco occidentale fosse stato indebolito da quel modus operandi di Washington. E non a caso proprio nell’arco temporale che è andato dall’agosto del 2021 all’inizio della guerra in Ucraina si è parlato di nuovo e con insistenza di autonomia strategica europea, quasi a rappresentare una reazione a quelle scelte di Washington. D’altro canto, il ritiro e il conseguente abisso creato in Asia centrale hanno avuto anche altri lasciti geopolitici. A livello continentale, Cina, Russia e Iran si sono ritrovate a fare i conti con un pericoloso focolaio di instabilità, per il quale l’Occidente faceva in qualche modo da “tappo”.

Tuttavia, allo stesso tempo con l’allontanamento dal cuore dell’Asia di migliaia di soldati statunitensi e occidentali e la parallela cancellazione di vaste reti di intelligence, le superpotenze rivali degli Stati Uniti sono attualmente le uniche capaci di inserirsi nello scenario afghano. E la fine repentina della sua “guerra infinita” è apparsa, agli occhi di molti osservatori, l’esempio più eclatante di un disimpegno Usa dal grande Medio Oriente su cui si interrogano tanto i partner quanto i rivali di Washington.