"Smuovere le coscienze"
Il 7 ottobre femminicidio di massa, Andrée Ruth Shammah: “Nessun israeliano potrebbe compiere le atrocità fatte da Hamas”

Il 7 ottobre 2023 ha mostrato una nuova immagine del terrore. Le uccisioni, i rapimenti e gli stupri compiuti dai terroristi di Hamas hanno sconvolto Israele e il mondo occidentale, innescando una guerra che rischia di travolgere il Medio Oriente. Ma al di là dei dibattiti politici, le inchieste hanno anche rivelato la violenza cieca e sadica che ha preso di mira in particolare le donne israeliane. Un abisso su cui ora vuole accendere i riflettori un appello. Affinché sul 7 ottobre non cali il silenzio, ma sia considerato non solo un eccidio e un crimine contro l’umanità, ma anche un femminicidio di massa. Ne abbiamo parlato con Andrée Ruth Shammah, promotrice dell’iniziativa insieme a Silvia Grilli, Alessandra Kusterman e Anita Friedman
Come nasce questa idea?
«Il 25 novembre, il giorno in cui le donne hanno manifestato contro la violenza, qualcuno ha deciso di non far parlare né sfilare le donne israeliane. Questo per me è stato scioccante. Il fatto che la politica e le sue interpretazioni avessero offuscato la gravità di quello che era avvenuto sui corpi di quelle donne in Israele mi ha fatto provare un dolore pari solo a quello di quando è morto mio padre. E questo deve fare capire quanto il dolore da me provato sia stato profondo. Perché il mio ebraismo era lui e il 7 ottobre è morto qualcosa anche per me».
Sono state le ultime inchieste a far scattare qualcosa di diverso?
«Prima lo sapevamo già, perché l’ambasciata aveva i video dei telefoni dagli stessi terroristi, che si vantavano di quello che avevano compiuto in Israele e delle violenze perpetrate sulle donne».
Eppure, è sembrato che dopo lo choc iniziale non ci sia stata quella solidarietà che ci si poteva aspettare da un certo mondo.
«Ho capito che c’è un cortocircuito e che il mio cervello non riesce ad accettarlo. I giovani e le giovani che manifestano contro la violenza e per la libertà sfilano nei cortei dietro le bandiere di Hamas, che ha compiuto quelle violenze contro le donne. In questo contesto, mi sono detta che non era possibile che tutto fosse così. Io all’inizio avevo detto di non volere fare nulla perché sono ebrea, e non volevo far vedere che la difesa delle donne israeliane fosse una cosa soltanto della comunità ebraica. Sarebbe stato umiliante. Per questo ho parlato con Silvia Grilli, Alessandra Kusterman, Anita Friedman e Manuela Ulivi e ho puntato sul mondo della cultura e anche sul mondo della sinistra, per smuovere le loro coscienze».
Lei ha ricevuto vicinanza anche da parte delle persone che sostengono la causa palestinese ma che hanno capito la gravità di quanto accaduto?
«Sì, ed è proprio per questo che io ho chiesto la firma di quel mondo che ha posizioni critiche nei confronti della guerra e delle politiche israeliane. Qui la politica non deve essere confusa con la condanna per l’orrore compiuto».
L’appello riguarda una tragedia che ha una data precisa, quella del 7 ottobre, e una vittima chiara: la donna israeliana. Ma lei pensa che questo appello possa rivolgersi anche alle donne palestinesi?
«In modo provocatorio, vorrei dire che mi piacerebbe sentire le donne che vivono sotto Hamas, le loro accuse di come i soldi sono stati usati dalla dirigenza di Hamas per realizzare tunnel e comprare armi e non per fare scuole e ospedali, di quanta violenza subiscono mentre tutti pensano che siano pro-Hamas. Nessuno pensa a cosa passa davvero nella mente di una donna palestinese. Io ci tengo molto a questo messaggio e non c’entra niente il conflitto in corso. Le donne palestinesi non hanno sofferto per Israele, ma perché a Gaza la popolazione è povera e usata come scudo umano, e già prima della guerra la loro condizione era inaccettabile per colpa di chi ha governato Gaza. Nessun israeliano, nemmeno sotto effetto delle peggiori droghe, potrebbe compiere contro le donne palestinesi atrocità come quelle compiute dai terroristi di Hamas contro le israeliane».
Cosa ha pensato il 7 ottobre?
«È molto difficile dare una risposta, perché è stato terribile. Io penso che la politica di Benjamin Netanyahu non sia la vera causa di questo attacco. La mente umana tende sempre a trovare un responsabile, non accetta una realtà difficile ma ha bisogno di un capro espiratorio. Questo attacco non è nato ora, ma c’è da sempre, perché non viene riconosciuta l’esistenza di Israele. Quando nei cortei urlano “dal fiume al mare”, intendono dire che deve essere cancellata la presenza israeliana. E questo non è un problema di oggi. Credo che anche Yitzhak Rabin, che stava per fare una pace con gli arabi, oggi sarebbe in guerra. Le svastiche sulle porte di casa degli ebrei in Europa non dipendono da Netanyahu e non sono arrivate con la guerra. Ora si sentono più liberi di farlo, sono tollerati, hanno una motivazione per esprimersi mentre prima non l’avevano».
Da questa guerra sembra proprio che non si riuscirà a tornare indietro.
«Credo che i primi a essersi illusi della convivenza tra i due popoli siano stati gli israeliani. Io sono disperata per Israele, perché senza convivenza non può esistere. Ci sono centinaia di milioni di arabi che vivono intorno a Israele, che ha una popolazione di nove milioni. E chi aveva il sogno di una società mista e pacifica erano proprio gli israeliani che avevano creduto lo scorso secolo a quell’idea di Paese. Io cito sempre la frase di Golda Meir: ‘Noi vi potremmo un giorno perdonare per aver ucciso i nostri figli. Ma non vi perdoneremo mai per averci costretto a uccidere i vostri’».
L’unica speranza è che da questo punto di non ritorno, dal pericolo di una guerra senza fine, possa scaturire una scintilla per una svolta di pace.
«Sono un’inguaribile ottimista, siamo talmente a un punto di non ritorno che forse si arriverà alla radice dei problemi, si cancelleranno le ipocrisie e si porrà fine alla sofferenza di entrambe le parti. Israele dopo il 7 ottobre non sarà più lo stesso, questo sadismo non si era mai visto e nulla sarà più come prima. Ma quello che è accaduto è talmente terribile che forse ci si avvicinerà a un qualche negoziato».
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