Quella piazza non è antifascista ma antigoverno
Il barbaro modo di commemorare la strage di Bologna: l’antifascismo e il pregiudizio di stare sempre dalla parte giusta
Lo scandalo è che si usi l’antifascismo militante per randellare e insultare. Sempre con il pregiudizio di essere i soli dalla parte giusta, della democrazia, della Costituzione, e persino della morale
Succede ogni anno, ogni 2 agosto, quando piazza Maggiore a Bologna si riempie per commemorare la strage del 1980 e una folla di qualche parente delle vittime – ma ormai piena solo di eredi politici – comincia a fischiare ogni rappresentante del governo che non sia della parte “giusta”.
Hanno dato del fascista a Berlusconi, quello che era amico di Craxi, e lo hanno ripetuto a Giorgia Meloni. Ogni anno c’è un presidente dell’Associazione familiari delle vittime, una volta si chiamava Torquato Secci, ora c’è Paolo Bolognesi il quale, nel nome dell’antifascismo militante, insulta governi e ministri.
L’anniversario anti-governo
Ma, come ha scritto sabato scorso su La Stampa lo storico Giovanni Orsina, “Bolognesi non si è limitato a interpretare la storia, però. L’ha pure brandita come una clava per darla in testa a tutta la destra italiana degli ultimi trent’anni”. C’è qualcosa di distorto in questa coazione a ripetere di ogni anniversario del 2 agosto. Prima di tutto perché, come osserva nello stesso articolo Orsina, la ricostruzione storica di quel fatto tragico è basata soprattutto sulle sentenze. Ma “le sentenze non sono verità divina, in una democrazia si ha il pieno diritto di diffidarne e criticarle”. E come non essere d’accordo? Ma c’è anche qualcosa d’altro che non funziona, in questo modo barbaro di commemorare. Ed è il fatto che i nomi dei fascisti, di quelli che non hanno mai negato di esserlo, e di coloro che per quella strage sono stati condannati e hanno scontato in carcere la pena, rimangono sullo sfondo, come se non importassero più.
L’antifascismo militante per randellare
Perché quella piazza non è antifascista ma antigoverno, e lo scandalo è che si usi l’antifascismo militante per randellare e insultare. Sempre con il pregiudizio di essere i soli dalla parte giusta, della democrazia, della Costituzione, e persino della morale. Quella piazza ogni anno non fa che confermare il sospetto, avanzato da molti studiosi non certo “fascisti” che alla base delle stesse sentenze non ci fosse alcun fondamento logico e probatorio, ma solo un teorema, che la strage di Bologna dovesse necessariamente essere di matrice fascista. Anche perché, in caso contrario, la gran parte del materiale probatorio a carico degli imputati sarebbe saltata per aria, evaporata. Ma nel frattempo, prima di processi e sentenze, sulla targa della stazione di Bologna, il termine fascista era già inciso e chiarissimo.
Le assoluzioni e le prime pagine
Credo però che in pochi sappiano, e in pochissimi ricordino, che ci furono, persino a Bologna, dei giudici che in quel teorema non avevano creduto tanto da farlo a pezzetti. È accaduto il 18 luglio del 1990, quando la corte d’assise d’appello aveva assolto dal reato di strage per cui in primo grado erano stati condannati all’ergastolo Valerio Fioravanti, Francesca Mambro, Massimiliano Fachini e Sergio Picciafuoco. E con loro i famosi “mandanti”, cioè la parte comica del processo, Licio Gelli e altri, un insieme di piduisti e barbe finte e circhi vari. Quel che accadde il giorno successivo a quella sentenza nella sinistra è davvero da album di famiglia, o meglio da fratelli coltelli. E sì, perché Il Manifesto, quotidiano comunista, diretto da Valentino Parlato, scelse la propria apertura titolando “Lo scandalo di una sentenza giusta”. Nella stessa giornata L’Unità, quotidiano fondato da Antonio Gramsci e diretto da Massimo D’Alema, uscì con la prima pagina totalmente bianca, in segno di protesta contro le assoluzioni. Perché non solo la strage era e doveva essere fascista, ma i colpevoli dovevano per forza essere proprio quelli lì, gli imputati. Nessuno stupore, del resto a Bologna all’epoca certi pm e certi dirigenti del Pci vivevano in simbiosi. Ed è difficile in questi casi capire chi abbia influenzato chi.
Sarà nato prima l’uovo o la gallina? Fatto sta che in quei giorni la sinistra italiana, quella garantista e quella amica dei pubblici ministeri, commentavano da visioni opposte la sentenza. Ancora una volta quel gruppo di intellettuali comunisti, Rossanda, Pintor, Caprara, Magri, Natoli, Castellina, Parlato, quelli radiati dal Pci che avevano osato scrivere “Praga è sola” contro i carri armati sovietici, risultava dissonante e isolato rispetto alla sinistra ufficiale. Quella della federazione bolognese, in particolare, che si spinse fino a scrivere una lettera, che Il Manifesto pubblicò in prima pagina, in cui, modello Vyshinsky, ritenevano tutti quanti noi redattori “oggettivamente” simili a mandanti di stragi. Eppure la redazione non era sola. Quel titolo “Lo scandalo di una sentenza giusta” era stato il frutto di confronti e ragionamenti insieme a un gruppo di avvocati e magistrati di sinistra, che ci avevano aiutato a sbrogliare le carte sul piano tecnico-giuridico. Erano quelli i tempi in cui non solo c’era Il Manifesto, che oltre a essere un quotidiano comunista era anche un collettivo garantista, ma esisteva anche una componente di Magistratura Democratica, esterna al Pci, abituata a coltivare il dubbio e fortemente garantista.
Non era facile esserlo con Mambro e Fioravanti, che non erano certo dei pacifisti. Ed era anche più difficile per il gruppo di redattori bolognesi, che erano corsi nella loro città in lacrime, ad aiutare in mille modi, non solo con i loro articoli. E anche per una come me, che sono nata a Parma in una famiglia socialista e antifascista. Le emozioni non hanno frenato quella scelta politica. Determinata da un punto di partenza, sulla base delle carte dell’inchiesta: ragazzi di vent’anni che erano stati terroristi e avevano sparato e ucciso si dichiaravano estranei a un fatto criminale mentre ne ammettevano altri, pure gravissimi. I Nar, il loro gruppo terroristico di destra, speculare a quelli di sinistra come Br o Prima Linea, avevano sempre annientato il singolo obiettivo. Colpirne uno per educarne cento, non colpirne cento a casaccio solo per seminare terrore. Da quel punto in avanti, eravamo arrivati a constatare che la famosa “pistola fumante”, la prova della colpevolezza oltre ogni ragionevole dubbio, non era mai stata trovata. E sarà così anche in seguito, nei vari processi che seguirono, fino a oggi. Ma va ricordato, dovrebbe ricordarlo la sinistra, che negli anni novanta il gruppo “E se fossero innocenti?” era roba di sinistra, non di destra. Ed è quel mondo che ancora oggi dovrebbe prendere la parola. Non per insultare Giorgia Meloni che non c’entra niente come non c’entrava niente Silvio Berlusconi, ma per dire finalmente qualche parola di vera pietà, per tutti. Ma soprattutto di verità. Ritrovando finalmente quel senso di giustizia che qualcuno, comunista di allora, aveva impugnato come la propria bandiera. Spingendosi fino a difendere i diritti di fascisti assassini.
© Riproduzione riservata