Impianti non all’altezza del calcio
Il bluff degli stadi italiani e la differenza nel resto del mondo: qui si discute del nulla, all’estero c’è una politica di rilancio
Milano ospiterà la finale della Champions League del 2026 o del 2027. La certezza è arrivata ieri, annunciata dal sindaco Giuseppe Sala: Budapest e il capoluogo lombardo sono le due sedi prescelte dalla Uefa. Resta dunque da capire soltanto quando il match più importante del calcio continentale tornerà a disputarsi in Italia. “Nel 2027 non sarò più sindaco – ha scherzato il primo cittadino di Milano – speriamo dunque che l’evento ci tocchi nel 2026”. Sarebbero dieci anni esatti dall’ultima finalissima disputata a San Siro – Real Madrid contro Atletico Madrid – l’ennesima ospitata in Italia.
Probabilmente la più celebre resta quella del 1991 quando la Stella Rossa di Belgrado – c’era ancora la Jugoslavia – sconfisse ai rigori l’Olimpique Marsiglia di Bernard Tapie e Jean Pierre Papin. L’Uefa per una volta decise di portare la finale fuori dal consueto giro scegliendo il San Nicola di Bari, omaggio lampante al potere della famiglia Matarrese.
Lo stadio del capoluogo pugliese era appena stato inaugurato ai mondiali di Italia 90 e portava la prestigiosa firma di Renzo Piano. Trent’anni fa gli stadi italiani sembravano al passo coi tempi. È bastato poco per svelare il bluff con il nostro paese che ha perso posizioni e fascino.
E mentre da noi si discute, nel resto del mondo si sta dando vita da anni a una politica di rilancio del calcio incentrata su nuovi stadi e una visione moderna e attuale della gestione di quella che è una vera e propria industria.
“Questo stadio dovrebbe portare il mio nome”. Tutte le volte che tornava a giocare a Barcellona Luis Suarez lo rivendicava scherzando. In realtà aveva ragione perché buona parte del Camp Nou era stata realizzata grazie ai milioni sborsati da Angelo Moratti per strapparlo al club blaugrana. pE forse è proprio il segno del destino se nei giorni della scomparsa dell’immenso Luisito nella capitale catalana le ruspe abbattevano le curve dello stadio che aveva visto le gesta di Kubala e Kocsis , Crujiff e Maradona, Ronaldo e Messi.
Nessun comitato, nessun burocrate ha impedito quello che per tutti è stato un passaggio necessario per garantire a quello che i tifosi ritengono “Mas que un club” un impianto moderno, capace di garantire maggior introiti, migliori condizioni per gli spettatori e la possibilità di competere alla pari con le grandi squadre d’Europa e del Mondo.
Il nuovo stadio sarà pronto nel 2025, costerà novecento milioni di euro frutto di finanziamenti privati, potrà ospitare centoundicimila spettatori (sarà il secondo al mondo per capienza dopo quello di Pyongyang) e dovrebbe portare il nome di Spotify, la piattaforma di streaming musicale più famosa al mondo.
Non è da meno lo sforzo del Real Madrid che con poco meno di un miliardo di euro conta di dare alle merengues un rinnovato Santiago Bernabeu entro questo Natale. I cugini dell’Atletico hanno abbandonato lo storico Vincente Calderon (adesso ci sono appartamenti) per il moderno Civitas Metropolitano; nessuna nostalgia neppure nei Paesi Baschi dove l’Atletic Bilbao, demolito il vecchio San Memes, gioca in uno stadio nuovo di pacca.
Dell’Inghilterra si sa tutto: l’Arsenal ha abbandonato lo storico Highbury per l’Emirates, il Tottenahm ha detto addio al White Hart Lane per il nuovo Hotspur Stadium, il City si è spostato all’Etihad. Chelsea, Manchester United e Liverpool hanno radicalmente trasformato le loro arene. Wembley, il tempio del calcio, ma anche del rock, è stato abbattuto senza se e senza ma.
In Germania il rinnovamento è stato generalizzato e Allianz Arena di Monaco e Westfalen Stadion di Dortmund rappresentano due eccellenze a livello planetario.
La lista sarebbe infinita: Francia e Polonia, Portogallo e Ungheria hanno da tempo mostrato di aver compreso l’importanza di questa partita. La Turchia ha completamente rinnovato il proprio parco impianti e non ha caso è avanti all’Italia per ottenere gli Europei del 2032.
Anche in Sud America si è agito con risolutezza: Maracanà in Brasile, Bombonera e Monumental a Buenos Aires non hanno resistito all’impatto delle ruspe nonostante il nome leggendario e la storia secolare dei club che vi avevano giocato.
E poi ci siamo noi: Roma, Milano, Napoli sono piazze importantissime con impianti decisamente non all’altezza. Di Firenze dei niet delle sovrintendenze sanno ormai tutti. E così come rilevava Matteo Renzi su queste pagine qualche giorno fa il calcio italiano è morto e non lo sa.
Intanto prosegue inesorabile l’esodo dei grandi campioni. Gli unici fuoriclasse a non cambiare casacca e, soprattutto idea, giocano la loro partita nelle sovrintendenze e negli uffici pubblici. Loro resteranno sicuramente dalle nostre parti.
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