Il 9 maggio sono diventate legge le nuove norme per il contrasto al bullismo e al cyberbullismo, un primo importante passo di modifica della legge 71 del 2017. Ci sono alcune novità, tra cui l’istituzione di una Giornata del Rispetto (da celebrare il 20 gennaio, giorno del compleanno del giovane Willy Monteiro Duarte, ucciso per aver tentato di difendere un amico in difficoltà); l’attivazione di un apposito numero di emergenza (il 114); un codice di prevenzione con supporto psicologico; un tavolo di monitoraggio delle scuole che coinvolgerà – oltre a docenti, famiglie ed esperti – anche i rappresentanti degli studenti.
È quest’ultima una potenziale buona strada, perché non si chiede ai ragazzi di essere soltanto “sentinelle di denuncia” ma parte attiva del sistema di osservazione e prevenzione. Infatti, se dal 2017 ci sono stati passi avanti, uno dei punti critici resta ancora oggi la scarsa comprensione della natura e dei confini del fenomeno, non solo da parte degli studenti. Per esempio, in relazione al cyberbullismo, si finisce spesso per reclamizzare unicamente alcune sue forme, come il cattivo linguaggio (hate speech), la diffusione di informazioni o immagini private (outing), il fingersi un’altra persona per carpire e diffondere informazioni (masquerade).
Altre forme sono invece meno percepite ma non meno violente e diffuse, tra cui quella che gli esperti definiscono exclusion, l’esclusione dal gruppo. Sul tema c’è bisogno di una particolare attenzione educativa, perché spesso chi esclude non ha coscienza della ferita che provoca.
Difficilmente, per esempio, i ragazzi pensano di agire da “bulli” quando creano un gruppo Whatsapp della classe escludendo un solo compagno o, peggio, se ne creano uno che mette a tema – già dal titolo – la sua derisione.
La percezione è ancora più sfumata quando l’escluso è colui che ha commesso un errore (una delazione o un atto di bullismo), sul cui giudizio negativo il gruppo-classe concorda. L’esclusione scatta allora come azione punitiva e – quel che è più grave – si autogiustifica sulla base del principio di giustizia (“è lui ad aver sbagliato”) e di maggioranza (“se siamo in tanti a pensarla così, un motivo ci sarà”). E così, come spesso accade, la forza del gruppo solleva il singolo dalla responsabilità: se si offende insieme, nessuno sente su di sé il peso della ferita inflitta.
È qui che l’adulto è chiamato intervenire, proponendo ai ragazzi una “mente mobile” e aperta, capace di scorgere una vittima in quello che prima era un bullo o un compagno in errore, e di mostrare che a definirlo ora non è l’errore che ha commesso ma il desiderio di non essere escluso. È un cambio di sguardo che apre lo spazio a una vera maturazione e combatte un bullismo che non sa di esserlo: il “bullismo dei più buoni”. Su queste pagine parleremo presto anche di un altro “bullismo” che non sa di esserlo, quello degli insegnanti su altri insegnanti.