Mentre tutto il Paese si rintanava nelle proprie case, svaligiando i supermercati, e il succedersi dei decreti per le misure di contenimento del coronavirus trasformava gli italiani in un popolo di delatori e complottisti, qualcuno nell’editoria aveva già intravisto un nuovo margine di profitto – per quanto questo possa sembrare un ossimoro – e qualcun altro stava già alzando gli occhi al cielo. Tra questi ultimi, i lettori e gli editor consci del proliferare simil-creativo dei sottoborghi monotematici che la pandemia avrebbe prodotto. Post sulla claustrofobia casalinga, diari dell’isolamento, lettere dal confino che di lì a poco avrebbero trovato posto in libreria, inflazionando ulteriormente il mercato editoriale, già compromesso dal continuo ricambio e macero. Come ieri ha scritto Walter Siti su Il Riformista, attenderemo lo spazio della forma romanzo per il Covid, «solo quando un autore avrà assorbito i terremoti del proprio inconscio»; ma ritengo, al contrario dello scrittore Premio Strega, che i primi quaderni della quarantena apparsi, e da lui citati, abbiano mostrato tutta la loro tela di libroidi estemporanei – in primis quello dell’enfant prodige di casa Einaudi – e quindi occasioni per riproporre la solita scrittura ombelicale, questa volta in forma di instant book, ma senza particolare merito.

Quando però, da alcuni giorni, Aboca si è presentata sulla scena con un nuovo scritto di Antonio Moresco, frutto della sua esperienza di isolamento nella città natale di Mantova, tutti gli occhi si sono subito voltati verso il maestro e il suo “libro istantaneo” destinato a diventare permanente. Canto degli alberi, il cui titolo rimanda ai suoi Canti del caos, caposaldo della narrativa del decennio trascorso e secondo volume dell’imponente trilogia dei Giochi dell’eternità, entra a far parte della collana “Il bosco degli scrittori”, sostenuta dall’editore toscano. L’albero di Moresco si distingue dai precedenti esperimenti bio-letterari per la scelta di una specie non contemplata nei manuali di botanica, né sublimata da un elegante illustrazione e da un nome latino: l’albero murato. Per sua stessa definizione, gli alberi murati sono «quelli i cui semi attecchiscono nei muri delle case, negli interstizi tra un mattone e l’altro o tra una pietra e l’altra, dentro la calce». Uno strano innesto del naturale sull’umano e sul minerale, che nasce in realtà apparentemente ostile e contro ogni principio di fisiologia vegetale, assorbendo la linfa dai sentimenti diffusi nell’ambiente, dalla specifica infelicità delle famiglie d’accoglienza.

A fronte della facilità di metafora dell’uomo incastrato nella scatola domestica, Moresco non si abbandona mai all’egocentrismo, piuttosto contrappone il racconto di un vagabondo metropolitano che riflette proprio sulla difficoltà di mettere per iscritto la metamorfosi alla quale è sottoposta l’umanità tutta, preda di un «microscopico invasore incoronato di aculei chimici». Il Canto degli alberi è quindi la risposta musicale che Moresco ottiene interrogando le radici buone e cattive, i tronchi, persino il midollo di alberi murati, gialli, blu e bianchi, capovolti o nati nei tombini, che ricordano gli alberi parlanti del Bosco Vecchio di Buzzati. Poiché il segreto della natura, che la rende immune al virus e ad altre catastrofi, può essere ponderato dalle sole creature alle quali gli alberi rivolgono la loro voce – ovvero i poeti – Moresco viene eletto destinatario di un’invettiva, da parte della rete sotterranea e onnisciente delle radici, contro la follia dell’uomo, artefice della sua stessa estinzione.

«La vostra selezionata sapienza vi serve per imprigionarvi da soli nei vostri cervelli murati», per questo la corruzione della specie è il risultato della tendenza dell’uomo alla perdita della memoria e al conseguente risorgere dei vecchi fantasmi autoritari, ripresentatisi durante la quarantena. La deriva accentratrice in cambio di garanzie di protezione di molti governi, dei quali la richiesta dei pieni poteri dell’ungherese Viktor Orbán è stata solo la parte più vistosa, ha dato sfogo a molteplici spinte antidemocratiche, dalla limitazione della libertà alla progressiva militarizzazione urbana, lasciando il campo delle città libero al passaggio delle ronde e delle camionette. Misure d’emergenza, in certi casi, drammaticamente destinate a diventare persistenti. Sebbene la seppur solo apparente immobilità di boschi e foreste, sarà proprio l’insensata mutevolezza e sopraffazione reciproca tra gli uomini a decretarne il suicidio di specie.

Le passeggiate notturne di questo moderno flâneur baudelairiano alla luce diafana della luna, come già ne Il grido (edito da Sem nel 2018), rendono Canto degli alberi un racconto metafisico e, a tratti, una favola onirica sulla diversità e sull’adattamento biologico agli spazi. Laddove vige nell’umano una propensione alla violenza, il complesso sistema vegetale ha trovato nuovi modi di eternarsi nei geni di forme di vita extraterrestri: gli alberi capovolti, quelli con le radici nel cielo che succhiano il loro nutrimento direttamente dalle stelle e dal cosmo intero. Pervasivo in tutto il libro l’interrogativo irrisolto di Moresco, ovvero se prima o poi anche l’uomo – e quindi lo scrittore, persino Giordano – sia in grado di emanciparsi dalla contingenza per capovolgersi, poiché forse solo allora si renderà immortale.