Rita Bernardini è una storica militante radicale, Presidente di “Nessuno tocchi Caino”. La battaglia per il mondo carcerario, per i diritti dei detenuti, è stata una battaglia condotta con forza da Marco Pannella. E in Rita c’è la stessa determinazione, la stessa passione, la stessa dedizione che si traduce in visite quotidiane nelle carceri non solo per capire quale sia la condizione dei detenuti e dei “detenenti” (copyright Pannella), ma anche quali possano essere i modi attraverso i quali rendere più dignitosa la vita di tutti i reclusi.

In questi giorni si parla stranamente molto di carcere: forse perché ci sono stati tre suicidi in poche ore o perché essendo Ferragosto le notizie scarseggiano. La vicenda di Susan, detenuta nel carcere di Torino, morta dopo uno sciopero della fame e della sete, quindi largamente prevedibile, al contrario di chi si mette un cappio al collo e si suicida, come la definiresti?

«È l’orrore del silenzio, anche delle istituzioni. Questa donna chiedeva di poter vedere il suo bambino, capisci? È mancato il dialogo, i garanti non sono stati informati. Susan si trovava in una zona del carcere, l’articolazione di salute mentale, “isolata”. Ha rifiutato il ricovero in ospedale. Occorreva quindi che tutti fossero mobilitati, dal garante, agli psicologi, per tentare di salvarla. Ma questo non è stato fatto e Susan è morta nel silenzio. Questa vicenda ti dà la cifra di quello che è diventata (e peggiora ogni giorno di più) questa istituzione obsoleta che è il carcere».

Vorrei che tu ci parlassi di un’esperienza, quella del gruppo “Le ragazze di Torino”. Un gruppo che è molto attivo, che ha fatto molte battaglie e che ha sposato un’iniziativa che tu hai ideato e io ho presentato in Parlamento, che è quello della Liberazione Anticipata Speciale.

«Sì, sono molto attive dentro il carcere, ma anche fuori, perché Marina e Stefania, le prime che si sono messe in contatto con me, finalmente sono uscite dal carcere e stanno lavorando, ma non si sono dimenticate delle loro compagne. Mara Marina, così le piace essere chiamata, si sta anche laureando, oltre che lavorare: sta facendo un percorso eccezionale. Chiedono spesso che tu le vada a trovare, sei il loro idolo».

Appena potrò camminare. Il fatto che Marina e Stefania lavorino non dovrebbe essere un’eccezione perché è quello che la nostra Costituzione prevede: se si finisce in carcere o si accede a pene alternative perché si è commesso un reato, dovere dello Stato e della comunità è di recuperare queste persone per consentire il loro reinserimento nella società.

«È previsto proprio dall’ordinamento penitenziario con i Consigli di aiuto sociale che però non ci sono: dal 1975 nessun Governo ha mai voluto attivarli senza peraltro mai abrogare le norme che li prevedono. È la legge, lettera morta».

Se in carcere ci fossero le persone che ci devono stare e non ci fossero le tante persone che non dovrebbero starci, il problema del carcere in questo paese non esisterebbe o addirittura ci sarebbero energie e risorse per consentire che diventi molto di più un luogo di recupero e di reinserimento sociale. Penso ai tossicodipendenti o ai tanti casi psichiatrici che sono reclusi perché non c’è l’alternativa.

«Certo e accanto a questo va considerato l’errore di aver smantellato o depotenziato i centri di salute mentale sul territorio e i SERD. Così nessuno intercetta più i casi critici per fare prevenzione. Il tutto per “risparmiare”, scaricando il disagio sociale sulla collettività e, alla fine, spendendo molto di più».

Vedo un problema di fondo però, che è nelle istituzioni: il Ministro Nordio di fronte a quello che è accaduto ha fatto delle dichiarazioni che a me hanno fatto venire la pelle d’oca. Per risolvere il problema del sovraffollamento Nordio vuole utilizzare le caserme. Io sono d’accordo con i sindacati degli agenti di custodia, che hanno detto sì, ma hanno chiesto di avere ulteriore personale apposito. Servono soggetti qualificati per gestire una situazione che diventa ancora più complicata. In generale penso che la via sia però opposta: noi dobbiamo fare in modo che in carcere ci siano meno persone possibili, cioè che ci siano tutta una serie di alternative al carcere che consentano di espiare la pena, soprattutto per coloro che devono starci poche settimane, pochi mesi, forse anche pochi anni.

«Il ministro Nordio, purtroppo, fino a questo momento ha fatto tutto il contrario di quello che ha detto in questi anni. Ma vediamo il bicchiere mezzo pieno. Il suo messaggio, inviato alla comunità penitenziaria dei 189 istituti, è stato un’innovazione; io non ricordo Ministri della Giustizia che si siano rivolti con un messaggio alla popolazione che abita le carceri; quindi, questa è una cosa sicuramente positiva. L’altra cosa positiva è l’impegno che ha preso pubblicamente di aumentare le telefonate che i detenuti possono fare, non è secondario anche se pensiamo al numero dei suicidi e degli atti di disperazione che si verificano nelle carceri. E poi Veniamo alle caserme. Tutti i Ministri della Giustizia, quando si trovano di fronte al problema del sovraffollamento, soprattutto nelle dichiarazioni fatte all’inizio del mandato, propongono di usare le caserme, come se fosse un problema solamente di avere un luogo fisico e come se quel luogo fisico non dovesse essere poi abitato da tutto il personale che è previsto. Questa sciocchezza in realtà potrebbe non divenirla se questi luoghi (o altri in disuso e di proprietà pubblica) divenissero posti dove i condannati che non hanno una casa possano scontare la detenzione domiciliare».

Anche perché in galera ci sono anche molte persone che potrebbero tranquillamente stare agli arresti domiciliari ma che non possono semplicemente perché non hanno una casa.

«L’altro giorno nella visita a Rebibbia ne ho incontrati diversi. Inoltre, potrebbe essere importante per i detenuti meno pericolosi, tossicodipendenti o altre categorie, tornare a un modello simile agli Istituti a Custodia Attenuata, che non richiedono molte forze dell’ordine, ma personale sicuramente qualificato dal punto di vista psicologico. Fra l’altro costerebbe meno allo Stato inviare un detenuto in comunità anziché in carcere: andrebbero favorite nuove comunità anche di tipo sperimentale: molte comunità, infatti, non raggiungono l’obiettivo di far uscire le persone da dipendenze problematiche perché sono troppo rigide o perché non hanno personale adeguatamente preparato. Per i malati psichiatrici, a parte le REMS destinate alle misure di sicurezza per coloro che sono stati dichiarati incapaci di intendere e di volere al momento della commissione del reato, occorre prevedere comunità terapeutiche assistenziali come quelle che ci sono in Sicilia che sono piccole (al massimo ospitano 20 persone), hanno personale preparato e fondi regionali destinati (e vincolati) al reinserimento sociale di queste persone. Le soluzioni, se ci si mette al lavoro, ci sono. Il primo obiettivo comunque deve essere combattere il sovraffollamento».

Dal carcere del nuovo complesso di Rebibbia che numeri emergono? Qual è la realtà del carcere romano che hai visitato il giorno di Ferragosto?

«A Rebibbia c’è una bravissima direttrice, la dottoressa Rossella Santoro, tanto è vero che nello sfacelo generale dei 189 istituti penitenziari Rebibbia la collocherei ben oltre la metà classifica.
Ma i numeri sono comunque sconvolgenti: 1506 detenuti per mille posti regolamentari. Il sovraffollamento è del 150%. Tenendo presente che è un grande carcere e che ci sono zone come il 41bis dove il sovraffollamento (purtroppo per loro) non c’è perché sono in isolamento in una cella, in alcune sezioni si arriva anche al 180%, al 200%.
A Rebibbia, 321 detenuti devono scontare da un giorno a un anno a 12 mesi, 314 devono scontare una pena residua che va da un anno a due anni. 246 da due a tre anni
190 da tre a quattro anni. Il totale?
971 persone su 1500, quindi, devono scontare una pena sotto i quattro anni. Il che vuol dire che molti di loro potrebbero accedere a misure alternative. Dati analoghi si registrano per Milano San Vittore che ho visitato recentemente».

E gli educatori?

«10 per 1500 detenuti. Ogni educatore deve farsi carico di 150 detenuti. Non è possibile, non può fare niente, tanto è vero che abbiamo incontrato, nelle sezioni più critiche, persone che l’educatore non l’hanno mai visto, non sanno neanche chi è. Se andiamo a vedere però anche la polizia penitenziaria, qui scopriamo che il personale previsto, le famose piante organiche, è di 815 agenti, però come forza operativa ce ne sono 705, ma da questi bisogna sottrarre il nucleo traduzioni che in sezione non ci sta».

Sono quelli che portano i detenuti nei vari ospedali, processi…

«Esattamente. Poi ci sono le unità dei cinofili, le unità distaccate e scendiamo così a 531, ma di questi 531, 27 sono all’ospedale Sandro Pertini, ma non finisce qui perché ci sono altri 150 funzionari, che in sezione non ci stanno, per cui alla fine scendiamo a 350 unità presenti in sezione per 1500 detenuti! Accade così che il sabato non ci siano più di 20 agenti a presidiare tutto l’istituto. Poi naturalmente non ci sono gli educatori, quindi io ho il sospetto che il sabato gli psicofarmaci circolino di più degli altri giorni, perché bisogna tenere calmi questi 1.500 esseri umani intrappolati. È una situazione esplosiva, drammatica».

Come rispondono gli interlocutori istituzionali?

«L’incontro che abbiamo avuto come “Nessuno tocchi Caino” con il capo del DAP, il Dr. Giovanni Russo, è stato veramente importante, perché ha dimostrato di conoscere questa realtà e sa come bisognerebbe intervenire. Naturalmente in alcuni casi bisognerebbe intervenire con modifiche di legge e lui non può farlo: devono farlo Governo e Parlamento. Credo che sulle telefonate il Ministro Nordio abbia ascoltato il capo del DAP, io chiedo al Ministro di ascoltarlo anche su tutto il resto».

Intanto, alla ripresa dei lavori, sarebbe ora che il Parlamento si facesse carico di intervenire, per esempio calendarizzando la legge sulla liberazione anticipata speciale.

«E quella di riforma della liberazione anticipata prevista dall’ordinamento penitenziario. Prevede, in sintesi, che si passi dai 45 giorni (già previsti ogni semestre di pena) a 60 giorni di liberazione anticipata per tutti i detenuti che hanno avuto un buon comportamento in carcere. Prevede inoltre che sia direttamente l’istituto a concederla e non il magistrato di sorveglianza già oberato da molte incombenze. L’altra proposta, di liberazione anticipata “speciale”, è di 75 giorni ogni semestre, soprattutto per compensare i due anni terribili che i detenuti hanno vissuto con il COVID».