Il carcere è un tema scomodo, perché non crea consenso, e se ne continua a discutere in termini puramente ideologici: (presunta) certezza della pena o svuota-carceri, tertium non datur. È l’approccio più inutile, perché mette la propaganda davanti alle esigenze di assicurare un essenziale equilibrio in ambito penitenziario mantenendo l’azione politica nell’alveo dei valori costituzionali.

Chi è fuori dal carcere non ha idea di come si svolge la vita all’interno, non conosce il perché degli innumerevoli suicidi. Bisogna, invece, essere consapevoli ed entrare dove quasi nessuno vuole entrare per pudore, per disinteresse o semplicemente per arroganza: attraversare le sezioni, le celle e le infermerie, i corridoi e gli spazi dove quotidianamente si evolve la delicatissima dinamica umana tra agenti, detenuti, educatori, medici e volontari. Il carcere non si muove a compartimenti stagni: tutti respirano la stessa aria, dietro le stesse sbarre, da ristretti e da operatori.

Non è una Mecca, non deve essere un cimitero. I numeri fanno a cazzotti con lo stato di diritto: l’ultimo report del Garante nazionale (29 luglio 2024) segnala, a fronte di 47.004 posti regolarmente disponibili, un numero di detenuti di 61.134, con un indice di affollamento del 130,06% (che sale al 224,38% a Milano San Vittore e al 209,34% a Brescia Canton Mombello). Un’abnorme promiscuità di sofferenze, dove si sconta anche una cronica carenza di agenti che – pur con limitate risorse – svolgono un’attività encomiabile.

Davanti all’emergenza, che non nasce certo con il governo Meloni, dobbiamo chiederci se lo Stato voglia abdicare alla funzione prevista dall’art. 27 della Costituzione oppure se intenda farsi carico di interventi immediati per ridurre il sovraffollamento, con un progetto di rigenerazione del sistema carcerario e di esecuzione della pena in chiave di rieducazione. La politica deve mostrare concretezza prospettica, senza farsi inquinare da ingiustificati dualismi: gestisca efficacemente l’esistente, ma con la capacità di realizzare una visione più ampia. Ecco perché la soluzione non può essere solo la costruzione di nuovi istituti o l’assunzione di mille agenti nei prossimi due anni: misure che possono contribuire a un riassetto generale, ma inadeguate nel dramma odierno.

Servono scelte coraggiose: congruo aumento dello sconto di pena per liberazione anticipata (immediato e automatico, salvo provvedimento negativo), introduzione di percorsi trattamentali e misure alternative di più ampio respiro, nonché un rafforzamento delle pene sostitutive, incrementando il numero degli operatori (medici, educatori, mediatori culturali) per assicurare un reale accompagnamento, così come la presenza dei magistrati di sorveglianza, costantemente sotto organico, affinché il trattamento inframurario si traduca nella concessione di benefici, affidati al loro giudizio. È un primo passo per restituire dignità alle persone. E anche allo Stato.

Antonino La Lumia, Elisabetta Brusa

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