Il caso del marito che costrinse la moglie a un rapporto, e le analogie con lo stupro in blue jeans del 1999

Se i magistrati cessassero di credersi psicologi e sociologi. Se i giornalisti e i commentatori di editoriali leggessero ordinanze e sentenze prima di trarre conclusioni ed emettere giudizi. Se infine ogni uomo capisse che il “no” di una donna non è un “forse”, ma proprio un no. Se tutto ciò accadesse, la notizia di Benevento non avrebbe meritato una riga in cronaca e soprattutto nessuno dei tanti editoriali virtuosi al profumo di Me Too. Quel che è accaduto sulla stampa negli ultimi tre giorni, mi ha ricordato un episodio analogo di tanti anni fa, nel 1999, la storia dello “stupro in blue-jeans”.

Piccolo riassunto dell’episodio di oggi per i più distratti, quelli che non hanno letto il 19 scorso il Fatto quotidiano e l’incredibile novità di vederlo schierato –udite, udite- contro un Pubblico ministero. Una donna pm, per la precisione, di Benevento, la dottoressa Flavia Felaco, la quale, nel giudicare le denunce penali parallele di due coniugi in fase di separazione piuttosto turbolenta, ha chiesto al gip di archiviare tutto. Lui denuncia la moglie per sottrazione di minori (lei se ne è andata con i figli), lei a sua volta dice di aver subito violenza, e «parla di pressione esercitata dal marito che la faceva sentire obbligata ad avere rapporti sessuali con lui». Il problema nasce da un evidente fraintendimento tra coniugi. È la contraddizione uomo-donna, antica come il mondo. Perché il maschio non accetta il rifiuto, ma anche perché trova comodo pensare che un “sì” iniziale valga anche successivamente, e addirittura che quel “sì” pronunciato sull’altare o davanti al sindaco diventi anche un impegno sessuale per la vita. Magari anche tra coniugi ottantenni, se lui si è procurato la pillolina blu. Non è così, e ogni donna lo sa. E a volte si sente in dovere di accondiscendere alla richiesta di lui.

Quel che non è chiaro è perché la pm, che evidentemente dopo aver sentito le parti in causa, si era convinta di una “sostanziale pariteticità” nella situazione di conflitto tra i due, abbia sentito il bisogno di fare la sociologa e la psicologa. E quindi di scrivere, nella richiesta di archiviazione, che è «comune» negli uomini ritrovarsi a «dover vincere quel minimo di resistenza che ogni donna, nel corso di una relazione stabile e duratura, nella stanchezza delle incombenze quotidiane, tende a esercitare quando un marito tenta un approccio sessuale». Apriti cielo. Queste parole sono state interpretate, con giudizi a volte violenti, come l’ottocentesca ritrosia delle fanciulle che lasciavano cadere un fazzolettino profumato, facevano smorfiette dicendo “no, no” con quella piccola resistenza che era in realtà un invito all’uomo ad andare avanti.

Ora, qualcuno fornito di buon senso può pensare che una donna, pure in toga ma sempre donna, possa aver scritto la frase infelice della dottoressa Felaco con quell’intenzione? Molto, molto difficile. Può aver valutato in modo erroneo la situazione tra i due coniugi in conflitto tra loro. Ma noi che cosa sappiamo di questo caso specifico? Che cosa ne sanno tutti coloro, donne e uomini, che si ergono sempre a “dar buoni consigli” magari perché non possono più “dare il cattivo esempio”?

Ecco perché questa storia mi ricorda tanto quella del 1999, su cui mi ero documentata, quella che portò alcune mie colleghe deputate del Polo delle libertà a manifestare in blue-jeans davanti a Montecitorio, cosa che io rifiutai di fare, perché avevo letto le carte. Nella sentenza di assoluzione di un istruttore di guida accusato di violenza da una ragazza cui aveva dato lezione, si affermava, tra l’altro, che, oltre alla totale assenza (documentata) di prova dello stupro, la ragazza indossava dei jeans particolarmente attillati difficili da sfilare, se non spontaneamente, all’interno di un’auto piuttosto piccola. Un’altra frase infelice e stupida. Che è finita, insieme alle foto delle mie colleghe in jeans, all’attenzione della Cnn, del NYT e del Washington Post. La storia si ripete nei suoi errori. Dei magistrati, della stampa e a volte anche della politica.