La tragedia, perché di questo stiamo parlando in qualunque prospettiva si voglia riguardare la vicenda, della morte della piccola Indi Gregory e della guerra giudiziaria e delle polemiche politiche montate sul suo corpicino, per l’ennesima volta ha dimostrato quanto i temi eticamente sensibili finiscano inevitabilmente per diventare terreno di scontro e di conflitto, un conflitto privo di sfumature intermedie affine al tifo calcistico.
E come sempre avviene, ad essere obliati dall’orizzonte della considerazione sono la bambina stessa, nel cui ‘miglior interesse’ sono state pronunciate le sentenze che ne hanno decretato la via verso la morte, attraverso la cessazione delle attività di tenuta in vita, e la figura dei suoi stessi affetti, ovvero dei genitori.
Ne ‘Il mito di Sisifo’, Albert Camus si pose quella che ancora oggi echeggia come la suprema questione filosofica, attingente al nucleo essenziale dell’umanità, e della libertà, di noi tutti; se una vita valga la pena o meno di essere vissuta.
La bioetica, con le sue tematiche spesso intersecanti il delicatissimo punto di connessione tra alta tecnologia, autodeterminazione individuale, convinzioni concettuali e religiose, da tempo si confronta con questo tema, allontanato dalla sua declinazione più pericolosa.
Sin da quando mi occupo di temi bioetici, mi sono reso conto di quanto i concetti di ‘migliore interesse’ e di ‘vita degna di essere vissuta’, quando maneggiati dalla sfera pubblica, si rendano sdrucciolevoli, paludosi.
Nel caso Airedale N.H.S. trust v. Bland, del 4 febbraio 1993, già i giudici inglesi avevano dovuto ‘statalizzare’ e collettivizzare la volontà della persona malata terminale incapace di esprimere la sua propria volontà, come ovviamente avviene anche nel caso di una bambina.
In quel caso, come pure in altri, la oggettivizzazione statalista elide del tutto la sfera affettiva degli altri, nel nome di una connessione tra presupposti scientifico-tecnici e un interesse che assume anche connotazioni pubbliche, più che individuali o familiari, fino alla sostituzione della libertà individuale con la decisione pubblica, secondo quanto postulato ad esempio dalla Lower Court del Missouri nella vicenda ‘Cruzan’ del 1990.
Il caso Indi Gregory e le mani di ferro dello Stato
L’elevazione del presupposto scientista a pietra angolare della decisione statalista, in forma di provvedimento giudiziario, come non ha mancato di sottolineare Bruno Latour in ‘Politiche della natura’, finisce sempre per privilegiare una logica di moltitudine innominata, lo Stato, sui soggetti svantaggiati che si trovano a soffrire.
Nel caso di Indi, la totale elisione dei genitori e la mancanza di considerazione reale della volontà dei genitori stessi, della loro libertà, del loro amore, in presenza di una alternativa che sembrava essere stata rappresentata, agli occhi della collettività inglese, anche dall’intervento italiano, al netto di qualunque considerazione politica sulla natura di questo intervento, ha declinato il concetto di ‘dignità della vita’ nella sua maniera peggiore.
Vivere una vita degna è un imperativo di ordine interiore e individuale, motivo per cui sono favorevole alla libertà di fine vita e alle attività di Marco Cappato.
Proprio per questo, quando invece la dignità ricade, in termini valutativi, nelle mani di ferro dello Stato si rischia sempre di rifluire in quell’abisso nero tratteggiato, a livello storico-concettuale, dall’opera “Die Freigabe der Vernichtung lebensunwerten Lebens”, di Karl Binding e Alfred Hoche, che come noto avrebbe portato alla premessa biopolitica del concetto nazista di ‘vita indegna di essere vissuta’ e alle conseguenti politiche di sterminio di malati terminali e infermi di mente.
Intendiamoci, non sto dicendo che la decisione inglese sia intrinsecamente eugenetica, ma che la china intrapresa da qualunque statalizzazione che sostituisca l’interesse collettivo alla volontà e alla libertà di una vita e dei suoi affetti più cari e vicini conduca, questo sì, lungo un percorso molto pericoloso.