La vicenda giudiziaria di Raffaele Lombardo, che ha registrato una nuova assoluzione da parte della Corte di Appello di Catania, dopo che la Corte di Cassazione aveva annullato la prima sentenza di assoluzione, si è snodata, come ormai da tempo spesso avviene per gli amministratori pubblici delle Regioni del Sud, intorno alla accusa di concorso esterno in associazione mafiosa. E va ad aggiungersi ad una lista, che sta diventando infinita, di politici meridionali, devastati nella loro dimensione pubblica da tale accusa, palesemente infamante, e poi, dopo un calvario di svariati anni, riconosciuti innocenti. Con un danno irrimediabile non solo per le loro vite, ma anche per le collettività in cui hanno svolto le loro battaglie politiche e che sono state private di protagonisti importanti della dialettica democratica e per la stessa credibilità del sistema giustizia.
La circostanza che, specie in Sicilia ed in Calabria, si assista ad un ripetersi così frequente di vicende giudiziarie, che hanno al loro centro il reato di concorso esterno in associazione mafiosa e che, dopo che la vita degli accusati è stata distrutta, si concludono con una assoluzione, non può non imporre una riflessione per tentare di individuare le ragioni di una tale sistematica aberrazione. Su questo punto occorre subito svolgere una considerazione. Sono vicende che, nonostante la pressione che la stessa gravità di una accusa di contiguità con la criminalità organizzata di stampo mafioso non può non esercitare sull’animo di chi decide e nonostante la pressione che media ed avversari politici spesso esercitano, si concludono spesso con una assoluzione. Vi è la conferma, perciò, che il valore della autonomia e dell’indipendenza che la Costituzione assicura ai Giudici italiani è un valore irrinunciabile a tutela dell’intera collettività. Il che non significa, certo, che i Giudici non possono sbagliare, ma, senza voler affrontare in questa sede il tema della responsabilità per palese negligenza ed ignoranza, indica che quella autonomia e quell’indipendenza riducono, e grandemente, i margini di errore.
L’indagine deve, allora, dirigersi altrove, muovendo, innanzitutto, dalla considerazione del reato contestato: il concorso esterno in associazione di stampo mafioso, che è spesso giustamente definito, su questo giornale, come “il reato che non esiste”. Esso, frutto esclusivamente di elaborazione giurisprudenziale, è stato “creato” per poter dare una risposta repressiva a quelle forme di contiguità (politica, imprenditoriale, giudiziaria, professionale, ecc.) con le organizzazioni criminali, non idonee tuttavia ad integrare una ipotesi di partecipazione diretta al sodalizio criminale. Che si sia trattato di una “creazione” giurisprudenziale lo ha detto con chiarezza la Corte Europea di diritti dell’Uomo, che, nella ormai famosa sentenza Contrada, ha affermato la applicabilità della incriminazione alle sole vicende successive al consolidarsi nella giurisprudenza degli elementi costitutivi di tale reato. E non si può non notare, subito, che una tale “creazione” giurisprudenziale è stata una condotta eversiva rispetto ad un sistema rigido delle fonti, quale quello che caratterizza l’ordinamento italiano, che non attribuisce alla giurisprudenza il compito di introdurre nuove norme. Avrebbe dovuto esservi una immediata reazione del legislatore per ripristinare una corretta ripartizione di competenze.
A parte l’aspetto appena indicato, il punto debole della costruzione sta nella individuazione (o meglio nella mancata adeguata individuazione) degli elementi costitutivi di questa fattispecie. Già il reato di partecipazione ad associazione mafiosa ha confini molto labili, atteso che è idoneo ad integrare l’illecito ogni contributo alla vita o al rafforzamento della associazione, senza alcuna determinazione di requisiti minimi della condotta incriminata. È evidente, allora, che, nel momento in cui si intende spingere oltre i confini dell’illecito penale per coinvolgere anche chi non faccia in nessun modo parte del sodalizio criminale, i concetti di “contributo” e di “apporto” alla associazione, la cui esistenza individua la condotta del concorrente esterno, finiscono con l’essere ancora di più privi di qualsiasi preventiva caratterizzazione. Sono, così, spalancate le porte a margini di discrezionalità di tale ampiezza, da essere inevitabilmente subordinati a soggettivi giudizi di valore e a personali condizionamenti socioculturali. Si realizzano, in definitiva, le condizioni ottimali per l’attuazione di “una giustizia etica” e, attraverso di essa, di “uno stato etico”, foglia di fico di tutti i totalitarismi.
In questa prospettiva, si concretizzano, specie per coloro che vivono ed operano in territori ad alto tasso di criminalità mafiosa, con cui è inevitabile convivere, margini di rischio penale incalcolabili preventivamente. Basti pensare a tutte quelle vittime del “pizzo”, che hanno dovuto subire il processo, e talvolta la condanna, per il reato di concorso esterno consumato per aver pagato, e, quindi, in definitiva colpevoli per non essersi messe nelle mani di uno Stato, che, a sua volta, troppe volte aveva dimostrato di non essere in grado di proteggerle. Trasformate, perciò, da vittime in criminali, in virtù di una fattispecie di reato priva di qualsivoglia determinatezza. Con una fattispecie così totalmente aperta, accade anche che condotte che, nella normale vita di relazione, possono al più essere tacciate di semplice irregolarità o di mera non aderenza ai precetti morali, nel momento in cui vedono coinvolto anche un membro di una associazione criminale diventano lo spunto per l’accusa infamante di concorso esterno in associazione mafiosa.
Cosa fare? Prendersela con i pubblici ministeri? Sarebbe errato, anche se troppo spesso l’incriminazione per concorso esterno appare una forzatura. Ma è la stessa configurazione della incriminazione a legittimare la forzatura. Per poter muovere un biasimo bisognerebbe dubitare della loro buona fede. Ma è un dubbio che non può essere preconcetto. Se si parte dubitando della buona fede di chi istituzionalmente è chiamato, anche rischiando personalmente, a combattere la mafia, si mettono in discussione non solo il ruolo delle Procure della Repubblica, ma le stesse fondamenta dello Stato. Il punto è un altro. Ancora una volta è la politica che non ha fatto e non fa il suo dovere. Per convenienza, per vigliaccheria, per opportunismo, per impotenza. In uno Stato democratico, spetta al Parlamento determinare le condizioni di afflizione, affinché i propri cittadini non siano in balia di poteri arbitrari. È questo il senso profondo dell’art. 25 della Costituzione, repubblicana ed antifascista, che stabilisce che le norme penali debbano contenere una precisa descrizione delle condotte vietate e punite.
Quella norma indica con chiarezza che il Costituente non ha voluto che al potere arbitrario della dittatura si sostituisse un potere arbitrario dell’ordine giudiziario. Per tale ragione i componenti di quest’ultimo sono espressamente sottoposti alla Legge, che non può essere una pagina bianca. Le forze politiche, che omettono di legiferare in questa materia e, di conseguenza, tollerano, ormai da decenni, questo stato di cose, semplicemente non fanno il loro dovere e violano il dettato costituzionale. C’è da chiedersi se la vicenda Lombardo, per il rilievo politico avuto dalla persona coinvolta, potrà finalmente indurre il Parlamento a fissare dei paletti precisi per determinare l’ambito di applicazione del reato di concorso esterno. I primi segnali non fanno ben sperare.
La notizia dell’assoluzione di Lombardo è stata data, dalla maggior parte delle testate di informazione, con estrema parsimonia. Il pensiero non può, ancora una volta, non andare alla riflessione di Sciascia, che aveva individuato nei professionisti dell’antimafia un ostacolo all’affermarsi della legalità. Troppo utile, per questi signori ed i loro alleati, l’esistenza di un reato del tutto indefinito, ma altamente infamante, da poter scagliare contro gli avversari.