L'editoriale
Il caso Silvia Romano e l’odio degli italiani: per favore un po’ di serietà

L’odio è una passione paziente: può scatenarsi all’improvviso come un colpo di fulmine, per un incontro o un avvenimento, ma poi si sedimenta e mette radici, si cristallizza e costruisce intorno a quel primo granello una corazza pietrosa e inscalfibile. La persona (o categoria) odiata diventa un punto di riferimento costante della nostra esistenza, una risorsa psicologica per i nostri momenti difficili; immaginare quella persona (o quella categoria) come responsabile del male del mondo porta con sé una specie di sollievo. Il tempo si ferma, le circostanze storiche variabili scivolano via e resta, fisso, il piacere di immaginare la vendetta, la nuda violenza esercitata da noi personalmente, o da nostri emissari, sul corpo di chi si odia. Riversare su di lui (o lei, o loro) tutte le colpe ci esime dal riflettere sulle nostre personali e civili responsabilità. Colui (o ciò) che odiamo ci definisce come persone: semplifica, radicalizza e ci preserva dall’angoscia del dubbio.
In questo l’odio assomiglia all’amore, e non è da tutti odiare di cuore come non è da tutti innamorarsi perdutamente. L’odio insomma è una cosa seria, che spetta a chi lo prova tenere a freno e alla società limitare, senza speranza di poterlo uccidere una volta per sempre. Se contrastato e indicato come peccato imperdonabile, l’odio si nasconde, si traveste, attende tempi a lui più favorevoli. Questa pandemia, che ha chiuso in casa mezza popolazione mondiale, sembra proprio un tempo favorevole; la dice lunga il fatto che in questo periodo, secondo dati attendibili, siano aumentate del 30% le chiamate ai centri antiviolenza familiare. I coniugi, per i quali le ore di separazione lavorativa erano un ammortizzatore dei conflitti, si sono ritrovati muso a muso a fare i conti con la realtà del loro rapporto; i maschi privati di bar e partite hanno sfogato le loro repressioni su donne e bambini; i ragazzini, senza cortili o strade per giocare con gli amici, si sono mostrati più impegnativi del solito. Il malumore ha fatto emergere l’odio latente, nei non pochi casi in cui incubava da anni sotto la cenere del quieto vivere.
Lo stesso è accaduto per gli odii sociali più antichi e stratificati, in primis il razzismo e l’odio religioso. Molti hanno sperato che l’epidemia esplodesse in Africa, ma per ora si scontrano con l’evidenza delle statistiche; così han dovuto ripiegare, prendendosela con gli africani che dagli italici ghetti vengono prelevati la mattina per andare a raccogliere frutta e pomodori. È bastata una ragazza ingenua, che per leggere il Corano ha aspettato di essere prigioniera, a far scrivere sui social parole orrende contro di lei e contro l’Islam “religione inferiore”. Sono casi di odio genuino, covato a lungo come ossessione; ma proprio per questo facilmente identificabile. Più insidioso e pervasivo è l’odio che si traveste, non possedendo né il coraggio né la dignità del proprio nome; meno pericoloso nel fondo, ma più dannoso per la convivenza civile nel breve e medio periodo. L’antipatia strisciante per i cugini francesi, duplicata da rivalità calcistiche; il ricordo bellico dei tedeschi rastrellatori, misto a invidia per la loro organizzazione e i loro soldi.
L’insofferenza delle regioni meridionali, più libere dal contagio, per una Lombardia che appesantisce e rallenta; quella uguale e contraria dei settentrionali per un Sud che tanto può fare quello che vuole, non sono loro a incrementare in modo decisivo il Pil. Il fastidio dei giovani per i vecchi troppo prudenti, e dei vecchi per i giovani che non indossano le mascherine. La voglia serpeggiante di delazione, il rancore che si traveste da giustizia; la preoccupazione di pararsi il culo per quando arriveranno i magistrati. I media amplificano e spettacolarizzano: la sindrome dei “polli di Renzo” di manzoniana memoria (che essendo legati per le zampe si ingegnano di beccarsi l’uno con l’altro) diventa platealmente odio di scena nei battibecchi dei talk politici, le cui livide bordate si distinguono a stento da quelle, in odore di audience, dei reality trash. Sui social si lapidano due influencer fidanzati perché lui ha raggiunto lei pur abitando in una Regione diversa; si dà credito ai più inverosimili complotti, ci si dichiara sicuri che la pandemia sia un inganno ordito dai “poteri forti”; perfino gli odiatori dell’odio alzano i toni, perché sono certi che l’odio riguarda soltanto gli altri e mai loro, anime belle. Onda confusa di rinfacci reciproci, in un Paese sull’orlo d’una crisi di nervi.
L’odio rischia di diventare una scorciatoia per cavarsi d’impaccio in una situazione che non sembra avere vie d’uscita. L’Italia i soldi pubblici non ce li ha, c’è poco da fare; ha molta ricchezza privata, come si è sbandierato per anni, ma nessuno adesso osa ricordarlo. La forza politica maggioritaria in Parlamento non è più la prima forza politica del Paese, ma oggi una crisi di governo è impensabile e le elezioni sarebbero ostacolate anche da motivi sanitari. L’odio senza conseguenze è quello più facile: sgrugnarsi e insultarsi sapendo che tutto resterà uguale, almeno per un po’. Più che odio, mugugno: insoddisfazione generalizzata, guardare il proprio vicino con sospetto; il bar che non ce la fa a tirare avanti denuncia l’altro bar che si è venduto ai cinesi; l’azienda sotto inchiesta per irregolarità nell’importazione di mascherine dice perché non guardate a chi ha fatto anche peggio di me.
L’estrema destra si proclama delusa dalla scarsa reattività di Salvini e Meloni, e accusa siete casta pure voi, cane non mangia cane, come i ladri di Pisa che litigavano di giorno e di notte andavano a rubare insieme. Un urlìo confuso di risentimenti incrociati non è la premessa migliore per affrontare i tempi duri che verranno. La buona volontà dei singoli, e anche dei governanti, non manca, il buonsenso cerca di stare a galla evitando gli scogli più perigliosi. Ma l’amore per gli altri, quello vero che ha il fulgore della carità, potrebbe dispiegarsi con più energia se l’odio gli si opponesse senza maschere.
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