È un libro di cui si è discusso, ma di cui mi auguro si parli ancora tanto, quello di Gaia Tortora: ‘Testa alta, e avanti’ (Mondadori). La storia della sua famiglia si apre con lei a quattordici anni, il giorno dell’esame di terza media, lei che cammina verso scuola ancora ignara di come le forze dell’ordine abbiano fatto irruzione all’hotel Plaza e arrestato suo padre. Nonostante un collasso cardiaco, Enzo Tortora verrà trattenuto in caserma fino a mezzogiorno.

Ammanettato e scortato da due agenti, sarà poi fatto uscire di fronte alla folla di giornalisti e condotto, nel susseguirsi dei flash, su un’auto d’ordinanza ferma sul lato opposto della strada. Direzione: Regina Coeli. Fino al giorno in cui non verranno concessi gli arresti domiciliari per motivi di salute, nel gennaio del ’84, Tortora viene interrogato due volte, ma i pm Di Pietro e Di Persia non si convincono della sua innocenza. In più, man mano che varie testimonianze smontano le accuse di Pandico e Barra, a emergere saranno nuove dichiarazioni a carico dell’imputato. Nel 1984, grazie anche alla legge Cossiga e all’introduzione di sconti di pena per chiunque collabori con la giustizia, i pentiti arrivano a essere addirittura undici. Suo amaro commento: “La Nazione del pentitismo”.

L’esergo scelto da Gaia Tortora è tratto da “Il corpo in cui sono nata” di Guadalupe Nettel: “Il terremoto portò via con sé anche gli ultimi resti della mia ingenuità e della mia innocenza”. Un terremoto figurato, il suo, non per questo uno strappo meno violento. Raccontare il dolore della bambina, prima, e della donna, poi, consente di inquadrare la vicenda sotto due diversi punti di vista, utili entrambi a capire: c’è il piano emotivo di chi sente, la quattordicenne, e allora si rinchiude nel silenzio o indossa un sorriso di circostanza, e c’è quello logico di chi pensa, l’adulta che disseppellisce i ricordi, e che ne trae una speranza. Per questo è un libro pieno di luce, il suo, nonostante il dolore, per quell’augurio di un principio di civiltà che Tortora invoca. Una giustizia che sia giusta. Il dolore resta, certo. Negli anni perde giri, decelera, ma è sempre pronto a tornare e a battere: “Allora l’organo-dolore si risveglia, comincia a pulsare. Il male che sento è identico a quello di allora”.

Ogni giorno tre innocenti finiscono in carcere per errore, più di mille cittadini l’anno. Lo sappiamo: titoli di giornale che additano i presunti colpevoli, seguiti, nemmeno sempre, da trafiletti nelle ultime pagine a segnalare l’errore. A volte quando va bene, troppo flebile rispetto al chiasso, dal silenzio si solleva una voce, come quella che all’epoca fu, insieme con Pannella, di Enzo Biagi: “Si ha l’impressione che, dopo aver messo le manette a Tortora, stiano cercando le ragioni del provvedimento”. Siamo al punto in cui, nel memoir, il passo si allunga dalla storia intima a quella collettiva. Fino a un monito: “Mi disgusta che lo Stato non si sia fatto in alcun modo carico di questo tragico errore giudiziario, così come che i giudici che l’hanno perseguitato non solo sono stati assolti in tutte le sedi deputate al loro giudizio, ma sono addirittura stati promossi”.

Nel peso di un dolore destinato a resistere e a rinnovarsi, ciò che colpisce è la misura con cui Tortora dà corpo alla speranza. Consapevole di quanto in ambito giudiziario sia difficile far sempre coincidere le due verità, quella storica e quella processuale, il suo augurio è che si intervenga per riformare un quadro ampiamente perfettibile, ma con l’aggiunta di una postilla: “Non per questo, io credo, possiamo permetterci di buttare tutto il sistema giù dalla torre”. Se il dolore non ha misura, il ragionamento sì, deve averne. D’altronde, ogni volta che si dirada la nebbia delle contrapposizioni ideologiche, da dietro la coltre a emergere è la stessa smania di semplificare. Ma così come non si contrappone alla categoria “magistrati” chi mette in guardia dalla furia del giustizialismo, in egual modo semplifica chi fa del garantismo una religione.

L’assoluto è di per sé riduttivo, non contestualizza e non articola e semmai, al contrario di qualsiasi logica, adatta l’assunto alle sue conclusioni. Quando Enzo Tortora, “instancabile nonostante il corpo affaticato”, promuove nel ‘87 il referendum radicale sulla responsabilità dei magistrati – che vede il trionfo del “sì” con l’80,5 per cento delle preferenze – non si scaglia contro un sistema, ma a favore di una libertà. Il rispetto del diritto da parte di tutti, nessuno escluso. È questo il lascito che sua figlia trasporta sulle pagine, mentre il dolore diventa una testimonianza, l’idea che la propria storia appartenga agli altri. Piccoli passi verso l’affermazione di un principio di umanità: lì dove la morale comune non può che coincidere con quella “politica”, lì dove a differenza di come la pensano i giacobini, un fine ultimo dell’agire umano non deve esistere, perché un bene supremo a cui sacrificare ogni cosa, e perfino una vita, non è ammissibile, perché il fine non giustifica il mezzo e perché dare battaglia non è mai giustizia, è giusto semmai un processo che risulti tale. Senza buttare giù il sistema dalla torre, ma con convinzione – è la solitudine che Federico Caffè addita al riformista, il quale: “preferisce il poco al tutto, e il realizzabile all’utopico”. A piccoli passi, nel gradualismo pragmatico della trasformazione. Ma pur sempre, come titola Tortora, a testa alta.