Il caso Tortora spiegato bene

«Dunque, dove eravamo rimasti?», disse Enzo Tortora al suo ritorno in televisione il 20 febbraio del 1987. Erano le prime parole che il giornalista, conduttore e autore televisivo pronunciava davanti ai telespettatori da quando, quattro anni prima, era cominciato il suo calvario giudiziario. Nel 1983 era stato arrestato con l’accusa di traffico di stupefacenti e di far parte della criminalità organizzata. E in quel modo Tortora divenne protagonista del caso di malagiustizia più celebre e clamoroso della storia italiana.

Enzo Claudio Marcello Tortora era nato a Genova nel 1928. Aveva condotto trasmissioni fortunate come Primo Applauso, Canzonissima, Campanile Sera, Telematch, il Festival di Sanremo e La Domenica Sportiva oltre a una serie di programmi radiofonici. Era stato anche giornalista per La Nazione e Il Resto del Carlino. Ideò il format Portobello che andò in onda dal 1977. Dal nome del mercato londinese, il programma era una specie di fiera in diretta dove si compravano e vendevano gli oggetti più strani. Faceva in media 22 milioni di telespettatori, con picchi di 28 milioni. Tortora era uno dei volti più famosi della televisione.

Il caso scoppiò venerdì 17 giugno 1983. Alle quattro di mattina i carabinieri prelevarono Enzo Tortora dall’Hotel Plaza a Roma. L’operazione fu condotta a favore di telecamere. Il presentatore fu trasferito al carcere di Regina Coeli e accusato per traffico di stupefacenti e associazione di stampo camorristico. Il giorno prima Tortora aveva ricevuto una serie di telefonate che gli chiedevano di un suo coinvolgimento in un’enorme vicenda giudiziaria. Informazioni cui il conduttore non aveva dato peso. Quella fuga di notizie si riferiva però proprio a quello che venne battezzato “il venerdì nero di Cutolo”, capoclan della Nuova Camorra Organizzata (NCO). Il 17 giugno 1983 infatti erano stati spiccati 856 ordini di cattura in 33 province da Bolzano a Palermo, la maggior parte dei quali era destinata ad affiliati della NCO. Nella maxi inchiesta erano coinvolti anche politici e vip. Tortora era il nome più celebre dell’operazione.

Ad accusare il presentatore furono in principio tre soggetti: Pasquale Barra, detto “O’nimale”, killer della NCO condannato per 67 omicidi tra cui quello in carcere del boss milanese Francis Turatello; Giovanni Pandico, condannato per omicidio e tentato omicidio oltre che segretario di Cutolo; Giovanni Melluso, detto “il bello” o “cha cha cha”, affiliato alla mala siciliana. A questi si aggiunsero velocemente altri testimoni. Furono in totale 19 i pentiti che accusarono il volto di Portobello, complice anche la legge Cossiga del 1982 che prevedeva sconti di pena per i collaboratori di giustizia. Tra gli accusatori anche il pittore Giuseppe Margutti e la moglie Rosalba Castellini che dissero di aver visto Tortora spacciare negli studi di Antenna 3.

Alla base del castello accusatorio, oltre alle dichiarazioni dei pentiti, c’era anche un presunto errore di lettura. Nell’agendina di Giuseppe Puca, killer della camorra detto “O’giapponese”, era stato ritrovato un nome con accanto un numero di telefono. Quest’ultimo non era riconducibile al conduttore – emerse in seguito appartenesse a una sartoria – e il nome era “Tortona”, non “Tortora”. L’elemento dell’agenda venne comunque considerato una prova dagli inquirenti. Nessun legame rilevante con i primi accusatori venne poi riscontrato nelle indagini. Venne fuori soltanto una storia di centrini di seta: erano stati spediti dal carcere di Porto Azzurro alla redazione di Portobello. I centrini si persero e Giovanni Pandico, compagno di stanza del detenuto che aveva inviato i centrini, cominciò a scrivere lettere minatorie al conduttore. Tortora volle risolvere la questione con un rimborso di 800mila lire per la perdita dei manufatti ma Pandico aveva sviluppato una sorta di odio persecutorio nei confronti del conduttore. Spiegò quindi ai magistrati che i centrini non erano altro che un nome in codice per gli 80 milioni di una partita di coca.

Su queste basi si imbastirono le accuse coordinate dai sostituti procuratori Lucio Di Pietro e Felice Di Persia. Il giudice istruttore firmò così gli ordini di cattura tra cui quello destinato a Tortora. Con l’arresto a favore di telecamere cominciarono a diffondersi altre insinuazioni false e infamanti che accusavano Tortora di aver usufruito dei soldi del terremoto del 1980 in Irpinia, di aver comprato uno yacht con i proventi dello spaccio, di aver scambiato in più occasioni valigette con boss e affiliati alla criminalità organizzata. L’opinione pubblica fu sconvolta dalla notizia e l’Italia si divise tra innocentisti e colpevolisti. Il Messaggero arrivò a titolare che Tortora avesse confessato. La giornalista del L’Espresso Camilla Cederna approvò l’operazione. A difesa del conduttore si schierarono Enzo Biagi, Giorgio Bocca e Indro Montanelli. A solo una settimana dall’arresto, e al dilagare di notizie e indiscrezioni non verificate, Biagi scrisse su La Repubblica un editoriale che titolava: “E se Tortora fosse innocente?”, e poi una lettera al Presidente della Repubblica Sandro Pertini. “Signor Presidente della Repubblica – scrisse Biagi – non le sottopongo il caso di un mio collega, ma quello di un cittadino. Non auspico un suo intervento, ma non saprei perdonarmi il silenzio. Vicende come quella che ha portato in carcere Enzo Tortora possono accadere a chiunque. E questo mi da paura“. Dalla parte di Tortora si schierarono anche Piero Angela, Pippo Baudo e Leonardo Sciascia.

Il Partito Radicale di Marco Pannella imbastì una campagna mediatica sul caso. Tortora si candidò proprio con i radicali nel 1984 e divenne parlamentare europeo con 451mila preferenza. All’epoca, dopo sette mesi di carcere, era costretto agli arresti domiciliari. “Sono stato liberale – dichiarò – perché ho studiato, sono diventato radicale perché ho capito“. Rifiutò l’immunità parlamentare affinché venisse concessa l’autorizzazione a procedere nei sui confronti. Il primo grado di giudizio lo condannò a 10 anni di carcere. La Corte d’Appello di Napoli emise sentenza di assoluzione con formula piena nel settembre 1986. Il 13 giugno 1987 la Cassazione confermò la sentenza di secondo grado. “Io grido – dichiarò in aula Tortora – sono innocente! Lo grido da tre anni, lo gridano le carte, lo gridano i fatti che sono emersi da questo dibattimento! Io sono innocente, spero dal profondo del cuore che lo siate anche voi“.

Il caso fu all’origine del quesito referendario del 1987 – nel quale si impegnò attivamente lo stesso Tortora – sulle responsabilità civile dei magistrati che portò alla legge Vassalli; norma sostituita nel 2015. Anni dopo il magistrato Diego Marmo – che nell’arringa del primo grado di giudizio ventilò anche la possibilità che Tortora fosse stato votato dalla Camorra – ha riconosciuto gli errori dell’inchiesta e, tra i pentiti, Melluso ha chiesto scusa alla famiglia. I magistrati Di Pietro e Di Persia hanno fatto carriera rispettivamente come procuratore generale di Salerno e come membro del Consiglio Superiore della Magistratura. Il Csm ha anche archiviato la richiesta di risarcimento di Tortora di 100 miliardi di euro. “Mi aspettavo una riforma del sistema giudiziario, invece non è accaduto. I processi continuano a durare all’infinito. Anzi in 30 anni c’è stata una esplosione numerica“, ha dichiarato Silvia Tortora, figlia del conduttore.

Tortora tornò in televisione ancora al timone di Portobello. Erano passati quasi 1800 giorni di calvario giudiziario. Da quando era entrato in politica si era impegnato per i diritti umani e civili e aveva visitato molte carceri. Nel suo discorso di ritorno agli schermi sottolineò anche queste sue battaglie. Il suo ultimo programma fu Giallo, l’ultima apparizione televisiva in Il testimone di Giuliano Ferrara. Il 18 maggio 1988, a 59 anni, morì a Milano. A causa di un tumore ai polmoni, ma lui diceva che fu la bomba di cobalto che le accuse e la detenzione ingiuste gli avevano fatto scoppiare dentro a ucciderlo. Le sue ceneri sono conservate al cimitero monumentale di Milano insieme con una copia della Storia della colonna infame di Alessandro Manzoni, capolavoro della letterato su un caso di malagiustizia ai tempi della peste del XVII secolo.