Lavorare direttamente o indirettamente con l’universo politico italiano vuol dire fare i conti ogni autunno con la famigerata Legge di Bilancio. Negli ultimi anni, il dibattito tra esperti e “appassionati” è stato animato dall’esigenza di trovare strumenti che non solo offrano respiro alle casse dello Stato, ma che abbiano anche un impatto equo sui settori coinvolti, con l’obiettivo di ridurre al minimo distorsioni o effetti collaterali negativi.
Una fonte di discussione e polemica non poteva mancare anche quest’anno, tra l’altro intorno a una delle misure più commentate negli ultimi anni da legislatori, politici e rappresentanti di interessi, ossia la cosiddetta “Web Tax” italiana, pensata inizialmente per le grandi aziende tecnologiche, ma che stando alla Manovra presentata in questi giorni a partire dal 2025 includerà tutti i soggetti che generano ricavi da servizi digitali, senza distinzione di dimensione o settore.

Introdotta nel 2020, la Web Tax è nata dall’esigenza di equilibrare il sistema fiscale, mirando ai ricavi realizzati in Italia da colossi digitali, cd. “Big Tech”, a vario titolo messi sotto i riflettori per il rischio di un “tentativo di fuga” dai sistemi tradizionali di tassazione. L’imposta si applica con un’aliquota del 3% su specifiche categorie di servizi digitali, come la vendita di beni e servizi online o la pubblicità online, ma ha finora fatto leva solo sulle aziende con fatturato globale superiore ai 750 milioni di euro, di cui almeno 5,5 milioni generati in Italia.
Eppure, con questa nuova proposta, il Governo ha deciso di ampliare a sorpresa la platea dei contribuenti, estendendo la Web Tax a tutte le aziende che generano ricavi dai servizi digitali. Questo allargamento, che secondo le stime della relazione tecnica del Mef, porterebbe in dote un incremento delle entrate per lo Stato di circa 51,6 milioni di euro, che senza nulla togliere ai possibili benefici diffusi che tale cifra può generare, sicuramente non rappresenta una somma determinante per la spesa pubblica. Anzi, in rapporto alle risorse necessarie per finanziare i servizi ai cittadini, questo gettito ha un impatto marginale, soprattutto in un contesto di conti pubblici sempre più complesso.

Tale scelta fa emergere una riflessione. Soffermandosi infatti sulla valenza costi-effetti della norma, ciò che colpisce è l’impatto pratico e comunicativo di una misura del genere: l’estensione della tassa, che nasceva con le intenzioni di equilibrare i ricavi del mercato rispetto al ritorno per lo Stato, viene adesso letta e interpretata come un nuovo impegno gravoso e sproporzionato per tante imprese operanti in Italia e che offrono servizi digitali, spesso con margini di guadagno ben inferiori rispetto alle multinazionali della tecnologia. Queste aziende, che fino ad oggi si erano tenute in equilibrio nelle dinamiche del mercato, potrebbero trovarsi ad affrontare una nuova e imprevista pressione fiscale che mette a rischio la loro sostenibilità. In vari casi, non si tratta di aziende tecnologiche, ma di imprese tradizionali che utilizzano il digitale come canale di distribuzione, che ora potrebbero trovarsi gravate da un’imposta che non era stata pensata per loro.

Ma se questa nuova tassa ha un impatto economico limitato, qual è il vero costo che rischiamo di pagare? Uno dei problemi principali è che una misura pensata per i giganti digitali, se applicata in modo indiscriminato, può generare un messaggio negativo e, da una parte alienare proprio quella categoria di piccoli e medi imprenditori che sta cercando di digitalizzare la propria offerta per restare competitiva e dall’altra aumentare la percezione negativa della pressione fiscale italiana da parte di aziende internazionali che potrebbero rivolgersi al nostro mercato.

Il ruolo del legislatore, o se vogliamo dirla in termini dai respiri internazionali policy maker, in questo contesto dovrebbe essere quello di favorire una normativa che non solo aumenti il provento dello Stato, ma che mantenga l’equità e che eviti di colpire chi è parte della transizione digitale senza possederne i mezzi. L’evoluzione del contesto economico e tecnologico richiede un sistema fiscale agile, che sappia adattarsi e distinguere tra le specifiche necessità dei grandi player e piccole realtà locali. Bisogna considerare che l’inasprimento delle norme su scala locale può anche essere percepito come una limitazione al potenziale innovativo in qualsiasi settore, nonché generare a priori una comunicazione negativa, seppur si voglia agire negli interessi dello Stato.
Saper costruire una narrazione che accompagni il contesto normativo è fondamentale, perché quando una norma riesce a mantenere un equilibrio tra esigenze economiche e sostenibilità settoriale, il beneficio che ne deriva è reale e percepito positivamente da chi ne è soggetto. Se questo equilibrio viene meno, si rischia invece di minare la credibilità del sistema Paese agli occhi di chi può essere parte dei meccanismi produttivi.

 

Umberto Scifoni

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